giovedì, febbraio 02, 2006

Memoirs of a geisha (@imdb)


I gialdìt son tutti stessi, questo il messaggio intrinseco del film. Che poi qualunque asiatico di qualsivoglia Giappone, Cina, Corea, Vietnam, Thailandia e via dicendo sia pronto a giurare di poter distinguere un cambogiano da un laoita a 18 km di distanza è un dettaglio insignificante, il fatto che riesca in effetti a farlo è solo una postilla, si sa che i gialdìt son tutti stessi.

Tanto uguali sono che il regist Rob Marshall ha ben ritenuto che hongkonghesi, cinesi, malaysiani (e non si dimentichino gli ABC) fossero fino a mai per fare i giapponesi (tanto chi vuoi che se ne accorga). Per aiutare il pubblico a distinguere i personaggi gli uni dagli altri, visto che si sa tanto i gialdìt son tutti stessi, segni caratteristici sono stati distribuiti a destra e a manca, e ad una capitano le lenti a contatto azzurre, all'altro il volto pesantemente sfigurato, un'altra ancora non toglierà mai gli occhiali, e via dicendo. Il pubblico rimbecillito ringrazia commosso.



E come non applaudire il fantasioso sincretismo linguistico che vuole che il film sia parlato in inglese con accento giapponese, per quanto possibile, cui si accompagnano saltuarie espressioni in giapponese (i vari arigatò e simili) che suonano con una non indifferente cadenza occidentale (visto che sono messe a bella posta in mezzo a frasi in inglese con simulato accento giapponese, il film in baka-weisch mi mancava). A tratti ci sono degli americani che dicono qualche frasetta in claudicante giapponese, poi tutti quanti conversano in una lingua comune che si fatica ad identificare. Se l'inglese accentato dei giapponesi (o meglio i supposti tali, ma tanto essendo i gialdìt tutti stessi...) è il giapponese, e l'inglese non accentato degli americani è l'inglese, perché dialogando si capiscono, se invece è tutto giapponese perché gli americani lo parlano meno dei (supposti) giapponesi, e se invece l'inglese tra (supposti) giapponesi è giapponese e quello tra americano o tra (supposti) giapponesi ed americani è inglese perché i giapponesi dell'isolazionismo ultranazionalista imparavano l'inglese infinitamente meglio di quelli dell'era dell'informazione?


Che l'assai meno pretenzioso Last Samurai se li risolvesse molto più elegantemente tutti questi aspetti è un'altra storia, però già che lo facevano, sto Memoirs of a geisha, potevano anche farlo accurato.

Ma veniamo appunto alla storia, la piccola Chiyo, bimba del giappone rurale che una mutazione genetica vuole con gli occhi azzurri, viene venduta ad una casa di geishe, dove, se sarà brava, le verrà concessa l'opportunità di essere iniziata all'entreneusismo nipponico. Sua compagna d'abitazione e di studi è Pumpkin (che immagino essere un tipico nome da patrizia di Kyoto, e che il divenire degli eventi trasformerà in un bel esempio di yellow trash), sua nemesi è Hastumoto (Gong Li) che pur essendo una geisha in carriera decide completamente aggratis di renderle la vita infame e in quattro e quattr'otto riesce a farla relegare al ruolo di schiavetta.

Un giorno la piccola Chiyo è rattristata sopra un ponticello di legno su di un ruscello (il giappone di fine anni '30 guarda infatti fuori tutto come una sorta di wellness feng shui) ed un signore simpatico e gentile (Ken Watanabe) accompagnato da due geishe con ombrellini di carta, le compra una granita e le dice di non lasciarsi andare. Affascinata dall'incontro con la prima persona che non l'abbia presa a pedate o tirata per i capelli, si mette a sognare, di nuovo, di diventare una geisha, in modo da poter godere, di tanto in tanto, della compagnia di persone civili.

Questa reiterata passione per il geishismo si realizza allor quando, alcuni anni dopo, Chiyo è cresciuta fino ad assumere le fattezze da cinese con le lenti a contatto colorate (Ziyi Zhang) e diventa la protegée di Mameha (Michelle Yeoh).


Allorquando in occidente all'aspirante lap dancer basta un sapiente lavoro di silicone e un corso di ballo online da quindici minuti, in un paese in cui il concetto di morte da lavoro viene per comodità riassunto in una parola di tre sillabe (karoshi) le cose hanno da essere più sofisticate, ed ecco dunque come la geisha debba passare anni ad imparare a camminare leggera ed eterea con zeppe di legno da 30 cm e 18 kg cadauana e ad armeggiare un festival di ventagli ed ombrellini di carta, nonché a sputare sangue per riuscire infine ad avere il numero 26 di piede.

Inutile dire che la piccola Chiyo brucia le tappe si trasforma nella top geisha del villaggio in men che non si dica, assume il nome di Sayuri ed entra nello star system locale.

Poi varie vicende, guerra, americani, destino, amore, malinconia, romanticismo, eccetera, eccetera,
tanto il punto del film non è la storia.

Per parlare del bene che offre questa pellicola, il film si guarda in fin dei conti con piacere, si deve dire della gran bella fotografia, delle maestose ricostruzioni, dei bellissimi costumi, dell'ubiquio grande senso dell'estetica. Ritmi lenti, ma sopportabili, attori credibili, soprattutto tenendo conto delle condizioni generali (d'altronde se il regista, o il produttore, sono convinti che il pubblico sia un'orda di rincoglioniti che ci può fare il cast), Memoirs di una geisha un briciolo di senso cinematografico ce l'ha anche.

In sostanza:
Una sorta di grandioso documentario da 50 milioni di dollari in cui sulle oltre due ore e mezza di film scorrono incessantemente belle, bellissime immagini.

Un grosso film, da cui si potrebbero trarre un sacco di bei screensaver insomma. Un grande film? Ahimé temo proprio di no, memoirs of a geisha soffre di una difficilmente guaribile superficialità (e proprio per dirne una che sia una soltanto, anche se un pochino sembra anche, i gialdìt non sono davvero tutti stessi).

Valutazione: ***