lunedì, agosto 03, 2009

Limits of control (@imdb)


Limits of Control è un film di un'estrema lentezza ed in cui non viene detto praticamente nulla, questa è una sorpresa solo parziale visto che il regista fa di nome Jim Jarmusch (qualcuno ricorda Dead Man)

Il film segue, sostanzialmente in prima persona, il viaggio di un elegante, solitario e taciturno (si sospetta) sicario attraverso una Spagna tanto desolata e deserta da trovarsi da qualche parte tra il surreale e il post atomico.

Il nostro incontra in sequenza una serie di pittoreschi individui ognuno dei quali indica come raggiungere il prossimo anello della catena. Incontri e dialoghi (o la quasi assenza di quest'ultimi) si susseguono con uno schema senza variazioni sul tema.

Dei motivi che muovono il solitario viaggiatore, impersonato dall'intenso ivoriano Isaach de Bankolé (già gelataio in Ghost Dog), viene svelato pochissimo, come pochissimo viene detto dei personaggi incontrati lungo il suo viaggio.

I lunghissimi silenzi, i personaggi che paiono esistere solo in quanto accessori all'avanzamento della trama e che potrebbero dissolversi in una bolla di sapone quando il nostro ha voltato l'angolo, e la generale, insostenibile, lentezza del film richiamano più avventure grafiche alla Myst che il cinema vero e proprio.

Dalla sua il film ha una fotografia efficace nell'immergere lo spettatore nei desolati scenari in cui la storia si svolge, o piuttosto la non-storia non si svolge. Il cast annovera parecchi grossi calibri, Tilda Swinton, Jael Garcia Barden, Bill Murray, cui peraltro non viene fatto fare molto, visto che l'intero script del film stà comodo in un paio di pagine.

Contro: una tale soporificità, che al confronto Dead Man passa per un film d'azione.

Azzarderei che era dai tempi di Black Stallion che tanti mezzi non venivano investiti per creare un'opera il cui fine è avvicinarsi alla quint'essenza della noia.

lunedì, aprile 02, 2007

300 (@imdb)


Nella cuore della Grecia che fu v'è' una città' di palestrati violenti chiamata Sparta. l'attività' principale della gente di Sparta è avere gli addominali scolpiti, nel resto del tempo si dedicano alla violenza più o meno gratuita.

La ridente città' di Sparta ha un re di nome Leonida il cui potere pratico e' men che nulla. Un giorno durante il regno di Leonida arrivano degli emissari di Serse re dei persiani che chiede sottomissione. Con diplomazia degna degli ultra' della Lazio Leonida e i suoi stabiliscono di buttare i portatori dell'arrogante ambasciata in un profondissimo buco nel bel mezzo della piazza principale della città' che par li' a bella posta per non negare il piacere delle defenestrazioni a gente che vive in case rigorosamente di un piano solo. D'altronde non v'è alcun altra possibilità' visto che persino quei boy lover di Atene non hanno preso in considerazione di piegarsi alle richieste di Serse.

Smanioso di lanciarsi all'attacco di un esercito di svariate magnitudini più' grande del suo, Leonida consulta la il club degli amici brutti de L'Oracolo di Sparta che dalla cima di un impervia cima dispensa simpatia su tutta la città. Gli amici brutti de L'oracolo sono terribilmente deformi, tipo quelli che si accendevano una sigaretta dopo aver sprayato in una stanza chiusa, gli oracoli erano invece delle avvenenti teenies che si facevano di pasticche per mandar giù' il fatto che gli amici brutti de L'Oracolo si facessero loro. E piuttosto evidente che lo stile di vita da anacoreta versione Hugh Hefner con la lebbra de gli amici brutti de L'Oracolo non dovesse essere più' costoso di quel tanto, ciò' non di meno, e per ragioni che con buona approssimazione solo un greco antico potrebbe comprendere, decidono di farsi corrompere da Serse, peraltro contro pagamento di spendibilissime monete recanti l'effige di questi, e di sconsigliare a Leonida di recarsi in battaglia.


Leonida decide che, visto che lui il parere d'altri so lo chiede e' solo pro forma, in barba a tutto e tutti se ne andrà' a far guerra ai persiani. Raccolto un manipolo di gente facinorosa anche per gli standard spartani se ne parte per una stretta gola che divide la Grecia dal resto del mondo (altrimenti i persiani mica sarebbero stati cosi' pirla da sbarcare proprio li'). In tutto gli spartani sono 300.

Giunti in loco gli spartani si mettono a menar botte da orbi, tanto da suscitare l'ammirazione di Serse lui medesimo che ad un tratto si presenta in ambasciata da Leonida cercando un accordo diplomatico. Serse, che tra l'altro e' l'indiscussa regina del mondo antico del bdsm e delle body modification, propone a Leonida di mettersi al suo servizio ed in cambio di diventare signore di tutta la Grecia.

Leonida gli dice di andare a fare il bimbo ateniese amico dei filosofi.

Nel mentre la regina (nonché' moglie di Leonida, visto che lui e' il re) tenta di convincere il consiglio dei menagrami anziani di Sparta a mandare l'esercito in aiuto di Leonida. Si sa che il miglior modo per convincere qualcuno delle proprie idee e' la corruzione, e dunque la nostra regina, con spartana fantasia, decide di mollargliela secca al più' influente membro dei consigli dei menagrami di Sparta, che tra () e' l'unico in quel contesto che guarda fuori fin decentemente (how convenient) visto che tra le altre cose ha una quarantina d'anni in meno della media di chi siede in quel consesso. Per la di lei sventura, questi era nel frattempo stato corrotto anche da Serse, e davanti al consiglio dei menagrami si opporrà' all'inviare le truppe accusando pure la regina di essere bitchy.


Far inviperire una regina spartana seguace del soddisfatti o rimborsati e' una di quelle idee che anche un deficiente capirebbe sia meglio accantonare, ed infatti il nostro faccendiere dei tempi andati si ritrova con un lungo pugnale infilato nelle palle in men che non si dica. Come già' detto il politicante in questione non e' proprio una cima, tanto da farsi corrompere con monete di conio Persiano (e mi ripeto: hai voglia a spenderle monete di quel genere nella Grecia antica), da portarsi dietro il denaro incriminato ovunque vada, e far sì che la pugnalata della regina le faccia spargere per tutto lo spartano pavimento del consiglio dei menagrami, in modo che a tutti si palesi il fatto che costui fosse corrotto.

Nel mentre, non prima di aver fatto versare fiumi di sangue Leonida viene sconfitto, dato che 300 spartani (anzi 299 visto che uno e' stato spedito indietro a raccontare la vicenda) per quanto volonterosi alla fine non possono che prenderle da 100'000 e rotti persiani, e ucciso in quel modo glorioso che ogni spartano spera dalla nascita (sempre che non venga buttato giù' da un dirupo perché' rachitico).


Questo film e' tratto da un fumetto, ha colori da fumetto, ha il look da fumetto, ha la mitologia da fumetto, ha la storia da fumetto, ha l'atmosfera da fumetto.

E tutto questo va benissimo.

Va benissimo perché' evita che ci sia una reinterpretazione hollywoodiana della vicenda, che in tanti casi si e' rivelata molto deficitaria, basti pensare ad Alexander.

Non bisogna aspettarsi grandi approfondimenti, probabilmente sarebbero impossibili visto che in se il fatto narrato e' semplice e lineare. Il taglio e' semplice, diretto e mai pretenzioso, meglio di un sacco di Troyate che si son viste in questi anni.

Valutazione: ***

martedì, agosto 29, 2006

Il demonio veste Prada (@imdb)


Divertente come un sabato pomeriggio di shopping durante i saldi.

Meryl Streep è Miranda, impietosa clone di Crudelia de Mon ed autorità suprema in importantissima rivista di moda che non viene chiamata Vogue, immagino, per questioni di diritti e per il fatto che Vogue non voglia essere dipinta come rivista diretta da un'altezzosa egomaniaca che se il narcisismo uccidesse starebbe a contar radici da un gran pezzo.


Anne Hathaway è Andy, dolce ragazza della porta accanto (+ tette grandi) tutta acqua e sapone e sane ambizioni. Per cominciare a coronare il suo sogno di diventare giornalista, si ritrova alle di dipendenze della dispotica Miranda in un luogo in cui le scarpe sono tutto e le segretarie sembrano top model (in effetti una di loro è intepretata dalla morosa a mesi alterni del Di Caprio Giselle Bündchen).


Sul principio Andy cerca di fare resistenza passiva alla futilità dell'ambiente in cui si muove, in fondo lei ha più alti valori e principi. Poi, dopo un paio di settimane al massimo, si trasforma in modo repentino una fashion addicted in fase terminale, tanto la roba gliela danno a gratis. In un ambiente in cui una cocainomane isterica che ti infila una forchetta nel dorso della mano viene considerata gentile perchè almeno non t'ha cavato un occhio, i modi civili di Andy cominciano, col tempo, a venir apprezzati e lei si trova a muovere i primi passi nella giusta direzione.


Purtroppo il prezzo da pagare è l'alienazione dai suoi vecchi amici, meno di una manciata invero, ed in particolare con il suo ragazzo dal look grunge e dal tenebroso fascino del cagacazzo convinto di saperne perennemente una più di Bertoldo. In piena filosofia della y generation costoro tollerano male chi spende il tempo a fare il workaholismo invece di consumarsi in infiniti pomeriggi a discutere di feng shui e celestini.

Inutile dire che ora della fine del film tutto volgerà più o meno al meglio e tutti saranno più buoni e felici.

Questo film è un po' deboluccio. Meryl Streep è, come al solito, convincente, ma il suo è un ruolo solo di supporto e il film si trova a ruotare attorno alla figura di Andy che ha lo spessore psicologico di un cecio e che sembra uscito da uno di quei film fatti per i bambini nella convinzione che i bambini siano tutti sempre deficienti.


La camera indugia spesso e volentieri sui giganteschi occhioni scuri della Hathaway, che, se necessario, si colmano di lacrime, ed è superficiale su quello che sono vestiti ed accessori. Cose, quest'ultimi, che in realtà dovrebbero avere un ruolo assai più importante visto che il film vorrebbe raccontare di come una persona che se ne riteneva immune scivoli nel baratro della fashion addiction.

Valutazione: ***

lunedì, agosto 28, 2006

Thank you for smoking (@imdb)


Thank you for smoking è un film divertente e che va giù in un sol boccone.

In sostanza un one man show ruotante attorno alla figura di Nick Naylor (Aaron Eckhart, già buono generico in film di basso calibro come The Core, o cattivo con stile in film di calibro giusto un pelo superiori come The Paycheck), di professione portavoce della lobby del tabacco, il film racconta di una manciata di giorni di quella che dovrebbe essere le quotidianità di Nick.

L'industria del tabacco traballa sull'orlo della crisi di nervi, il salutismo imperversa, azioni legali di massa corrono per il paese, e nell'immaginario collettivo il fumo non è più parte integrante dell'allure della gente che piace. Ed ecco dunque Nick barcamenarsi tra talk show con ragazzini malati di cancro, agenti di Hollywood in crisi di identità (un piuttosto brillante Rob Lowe, tanto d'una volta non bistrattato da Mike Meyers) tramite i quali spera di ripiazzare la sigaretta in bocca non solo ai cattivi dei film, o a rendere visita al ormai morente cowboy della Marlboro prima version (il cowboy narrante de Il grande Lebowsky Sam Elliott). Nel contempo si trova a gestire un rapporto con suo figlio Joey (Cameron Bright, già inquietante bimbo di Godsend) in sé più che buono ma che deve fronteggiare tanto l'acidità della madre/ex-moglie quanto il fatto che Joey cominci a porsi delle sincere domande su quanto sia giusto o sbagliato.

È facile immaginare che ad essere il portavoce dell'industria del tabacco si rischierebbe di venirne fuori maluccio da un concorso di popolarità. Ed in effetti la cerchia di amici di Nick si riduce ad un paio di altre persone che condividono con lui il fatto di essere il volto di industrie non automaticamente suscitanti le simpatie del grande pubblico: la rappresentante della lobby dei produttori d'alcool (Maria Bello, già propietaria del Coyote Ugly) e quello della lobby delle armi.

Nemesi di Nick, o aspirante tale, è il senatore Ortolan Finistirre (William H. Macy, ex bambino prodigio quizzista di Magnolia) il cui ridicolo nome ben si sposa con l'efficacia del suo operato, e che nell'intervallo di tempo raccontato dal film mira all'istituzione di una legge che obblighi che sui pacchetti di sigarette venga stampato, a ricordare di come il fumo uccida, un orripilantemente disegnato insieme di teschio e croce di tibie.

Nel tutto sommato quieto vivere dei personaggi sin ora descritti viene ad inserirsi l'aspirante giornalista Heather Holloway (la già scassapalle dagli occhioni tristi di Dawson Creek nonché neomamma dei figli virtuali di Tom Cruise, Katie Holmes) che dietro a sorrisoni smaglianti ed ammalianti nasconde intenti ben più crudeli.

Ruolo breve ma intenso è quello di Robert Duvall, nei panni di "The Capitan", gran patriarca dell'industria del tabacco, per il quale Nick è con una buona approssimazione il figlio che questi non ha mai avuto.


Il film, scritto e diretto da Jason Reitman, figlio di Ivan "Ghostbusters" Reitman, è scritto bene: brillante nei dialoghi ed evita elegantemente la trappola del buonismo moral/sentimentalista. Tutti i personaggi, bambini non esclusi, hanno al fondo una discreta base di cinismo e humor, ciò che permette loro di fare quello che fanno senza troppe remore ma anche senza particolari crudeltà d'intento. Il cast è appropriato e di ottima levatura, e questo detto gli ingredienti per un film almeno discreto ci sono tutti.
Messaggi profondi io non ne ho saputi leggere, il tutto è però intelligentemente divertente e ben confezionato, e Aaron Eckhart supera in modo convincente l'esame da protagonista che riesce trascinare per tre qurti del tempo la baracca tutto da solo.

Valutazione: ****

lunedì, giugno 12, 2006

Inside Man (@imdb)


Recensione tardiva per questo pregievole giallo firmato da sua maestà Spike Lee in persona.

Clive Owen è perfido rapinatore di banca con IQ da 230 e sfera magica per prevedere il futuro, Denzel Washington è poliziotto integro e un po' idealista ma cosciente che al volger del giorno in sera na ha salvati più la realpolitik della penicillina, Jodie Foster è perfida faccendiera che di tutti conosce gli altarini e che su questo basa una lucrativa carriera di raddrizzatrice di cose storte per gente che ha e che sa.

Delineare una trama senza spoilerare è in questo caso un difficile esercizio d'equilibrismo, quindi è più salubre limitarsi ad enumerare qualche elemento che l'osservatore più attento avrebbe già potuto evincere da un'analisi della locandina.
Clive Owen guida un gruppo di rapinatori ad una presa di ostaggi all'interno di una banca di Manhattan. Denzel Washington viene incaricato di gestire la situazione e di mediare con i criminali. Tra i due si sviluppa una sfida all'ultima arguzia in cui entrambi sono forti della certezza di saperla più lunga dell'altro, mentre lo spettatore che sa che uno dei due si sbaglia viene lasciato in un dubbio che perdurerà fino alla fine del film.
Il gran patron della banca ha un segreto che vuole resti tale e le cui prove invece di aver gia da tempo preso la via del macero giacciono nelle segrete della banca. Convinto che la miglior via per far restare il passato tale sia andarsene in giro a dar adito a sospetti, incarica Jodie Foster di andare a ficcare il naso. Avesse fatto l'uomo sandwich con su scritto "sono losco, ma davvero losco" il risultato non sarebbe stato altrettanto efficace.

Sulla base del gioco tra i tre protagonisti il film si svolge intricato e ricco di colpi di scena, di quei film che all'apparire del "nessun animale è stato maltrattato..." sul finire dei titoli di coda hai appena cominciato a raccapezzarti sul com'era in realtà la vicenda raccontata.



Lo Spike non nega lo spazio per delle brevi apparizioni di una serie di personaggi secondari ma indubbiamente colorati e che rendono più vivo lo sfondo in cui la storia si svolge, che, e non poteva essere altrimenti, è la Nuova York post 9/11 e post Giulianesca.

Un film brillante ed intelligente a volerla dire breve.

Valutazione: ****

giovedì, maggio 18, 2006

The DaVinci Code (@imdb)


1 1 2 6 24 120 720
e' una serie numerica che Antoine Arbogast comincio' ad usare in modo estensivo nelle sue ricerche un paio di secoli fa. In verita' Arbogast e' ignoto a chiunque non sia un junkie del wiki o sia capitato per sbaglio sul suo nome in qualche libro di matematica. La sua serie e' conosciuta piu' banalmente come fattoriale e spesso abbreviata con un semplice punto esclamativo.
Potrei proseguire ora per un paio di pagine ad elogiare tutte le qualita' di questa utile serie ed elucubrare estensivamente sul suo rapporto con la natura, con gli astri e con la distanza tra la terra e il cielo. La verita' e' che il fattoriale non se lo incula nessuno, cosa curiosamente non vera per un'altrettanto poco particolare serie numerica scoperta un mezzo millenio prima da un italiano figlio de il Bonaccione.

Gli stessi meccanismi socio-psicologici che rendono il sopraccitato wiki uno strumento informatico propenso alla dipendenza, fecero leggere a milioni di persone qualche anno fa un libro di discutibile interesse che ci ha provvisto in questi giorni di un film che merita d'esser visto per rendersi conto che l'entropia non e' una leggenda. Oggidi' l'uomo con la frusta e il cappello non e' piu' sufficiente a creare un film d'azione che sappia intrattenere il publico.
Il ruolo del fallace anti-eroe che ha accompagnato i protagonisti di film e libri negli ultimi 20 anni viene soppiantato dal piu' classico eroe senza macchia e senza paura.
Il protagonista odierno deve essere intelligente, acuto, erudito e soprattutto capace di spiegare in termini accessibili al publico la genialita' delle sue scoperte (we are but humble pirates...). Enter l'homo scholar che ritraccia i misteri di quando Gesu' facea le cose zozze con la Maddalena in un interminabile quanto improbabile caccia al tesoro.

Appoggiandosi sulla forza di due convinzioni:
- il publico e' ignorante
- il publico adora immedesimarsi in qualcuno che ignorante non e'
Ron Howard (Cinderella Man, A Beautiful Mind, The Grinch) ci propina 2h30 di film in un susseguirsi di enigmi e spostamenti.
Il film potrebbe durarne una in meno o dieci in piu', vista la sua struttura episodica. In ogni episodio i nostri eroi vanno in un luogo necessariamente conosciuto o per lo meno gia' sentito dal publico americano (cosa che a causa del primo assioma riduce il ventaglio di luoghi possibili a Parigi, Londra e la Banca di Zurigo), si trovano di fronte ad un complesso enigma, lo risolvono e partono per la prossima destinazione. Prima che possano partire, il cattivo arriva ed i nostri eroi sono costretti a darsela a gambe levate.

Apparentemente il miglior menu per il cattivo perfetto e' prendere darth maul, metterlo in candeggina e dargli un pendente per l'autolesionismo. Da quando Mel ha messo in croce il messia, le ferite sanguinanti sono facilmente associabili alla religione e aiutano il publico a capire che il cattivo in verita' e' anche un po' fuori di testa.

Aggiungete un poliziotto che sembra buono, ma poi sembra cattivo, ma poi sembra buono, per poter includere qualche scena d'inseguimento (la processione di monaci con i forconi sarebbe forse stata un po' anacronistica) ed avete tutti gli elementi necessari per un film che si guarda in verita' abbastanza volentieri. Mettete 5 minuti di grande tensione orchestrale per la sequenza finale ed avrete un publico che uscira' in contemplativo silenzio dalla sala prima di rendersi conto che in verita' non e' successo un granche'.

L'unica vera pecca di questo film e' che cerca per 2h30 di essere serio, senza avere uno straccio della maestosita' del Nome della Rosa e poco piu' di una spolverata dell'umorismo di Indiana Jones.
Tom Hanks e Audrey Tautou riescono a non far precipitare i gia' poco credibili personaggi principali e un Jean Reno che per una volta non brilla in modo particolare gioca il ruolo dell'uomo della polizia un po voltagabbana. Una nota di merito a Paul Bettany (l'amico immaginario di John Nash in a Beautiful Mind) che riesce a rendere il cattivo incappucciato l'unico personaggio veramente interessante del film.

E se non avete letto il libro, la trama puo' quasi risultare interessante.

Valutazione: ***

sabato, maggio 06, 2006

Get rich or die Tryin' (@imdb)


Curtis Jackson, anche conosciuto 50 Cents, protegé di Marshal Mathers IV, anche conosciuto come Slim Shady, anche conosciuto come Eminem, si dedica alla settima arte, del come si parlera nelle righe a seguire.

Il suo mentore si era prodotto nel potenzialmente autobiografico 8 miles, con risultati più che discreti. Dico potenzialmente autobiografico in quanto il film era in buona sostanza compatibile con l'immagine che Eminem dava di sé nelle sue clip. Il fifty cerca di ripetere l'operazione ma ahimé il voler essere coerente con la sua videografia lo costringe ad una performance cinematografica sensibilmente inferiore a quella del suo pigmalione.

Ovvero Get Rich or Die Tryin' è una collezione dei luoghi comuni che oltre un decennio di MTV ha potuto creare riguardo alla figura del gangsta rapper.


Ma veniamo alla storia, che benché non fosse strettamente necessaria all'operazione, qualcuno si è preso la briga di inserire nel film. Mamma Cents è una ragazza madre che si guadagna da vivere nel magico mondo dello spaccio. Malgrado la professione sia piena di incertezze e comporti orari di lavoro irregolari, ella è molto amorevole ed attenta con il figlio. Spesso e volentieri si appoggia all'aiuto dei genitori cui lascia in affidamento il giovane Fifty allorquando deve lavorare la sera. Il rapporto con i genitori della signorina Cents sono alle volte tesi in quanto le di lei scelte professionali non vengono apprezzate.
Il piccolo Fifty è contento di stare dalla nonna anche se i suoi zii/cugini gli stanno immensamente sulle balle. Nel quartiere vive infatti una ragazzina modello tizia da video hip hop da piccola con cui usa giocare al dottore.

Un giorno mamma Cents ci lascia le penne. In seguito ad un battibecco con dei colleghi si ritrova con dei buchi supplementari nella testa ed il cervello sparso sul parquet della sua casa da associate dealer. Il giovane Fifty si ritrova orfano e va a vivere con i nonni.

La convivenza con i nonni è difficile. I suoi cugini/zii sono dei maledetti intolleranti che reagiscono malamente alle manifestazioni della sua simpatica personalità di superviziato figlio di spacciatrice con scarpe da basket da 300$ a paio. Verificata l'incompatibilità con il vivere in una casa piena di gente si trasferisce nel capanno degli atrezzi. Dove in breve diventa un pezzo dimarcantonio con addominali scolpiti e parlantina da rapper farfugliante.

Da qui via si svolge la parte topica della trama, ovvero il nostro che scala le gerarchie dello spaccio, che reincontra la sua morosa delle elementari che nel frattempo si era fatta superbbona e che al rivedere il Cents abbandona la sua vita fatta di college e impegno sociale per mettersi assieme al mo pimpish indatown.

Un presunto elemento di approfondimento dovrebbe essere l'ossessione del Fifty con la figura del padre che non ha mai conosciuto e riguardo la quale ha in mano elementi pressoche nulli per poter in qualche modo sperare di identificarla (che mamma cents sia stata una che la faceva andare come le raganelle i tifosi allo stadio di certo non aiuta). Elemento più che altro presunto ma che vorrebbe fare da filo conduttore di tutto il film fino al finale tragimoralista cui MTV non ha saputo risparmiarsi, forse a mo' di disclaimer alla "we don't endorse crack dealing and pimping".


In breve: il film è una somma di luoghi comuni, e ciò non di meno qualche pregio se lo porta pure appresso. Il Fifty non convince davvero ma neppure è tanto disastroso quanto uno si sarebbe potuto aspettare sulla scorta delle sue clip. L'avventurarsi in un ruolo dai contorni drammatici è una palese forzatura, avesse tirato Snoop Dogg nella partita e avessero girato assieme una commedia in cui se ne andavano in giro carichi di ninnoli in princisbecco a yoyoare ne sarebbe uscito meglio. Non so dire se il ragazzo qualche numero nascosto ce l'abbia, può darsi, ma per poter davvero esprimere qualche cosa dovrebbe andare oltre al fare il moniggaindahood, che a dirla tutta suona molto artificioso e ad uso e consumo dei suoi fan più sprovveduti.

In realtà l'anello davvero debole della faccenda è un cattivo assolutamente non all'altezza. Questo, e il fatto che alla fine, di riffa o di raffa, il Fifty abbia comunque da diventare un rapper, sono gli elementi che più ridicolizzano lo sforzo drammatico che il film cerca altrimenti di fare.

Concludendo: se non sei Spike Lee certe cose non farle, hai qualche manciata di milioni di $ e un star dell'hip hop sotto mano? Meglio tu faccia un altro Soul Plane, il mondo ne uscirà come un posto migliore.

Valutazione: *** (per guardarlo lo si guarda pure)

P.s.: Malgrado il nome, 50 Cents non ha nulla a che fare né con Tony Curtis né con il Principe de Curtis, che comunque tra di loro non c'entrano. Bella forza mi direte, Curtis è nel primo caso un nome e nei seguenti un cognome. Era solo una scusa per poter citare qualche nome cinematograficamente un po' più significativo. Ovviamente non c'entra nella neanche con Jamie Lee Curtis, visto che quest'ultima è la figlia di Tony. Divagazione conclusa.

sabato, aprile 01, 2006

Out for a kill @imdb

Back Again

È ormai trascorso qualche tempo dall'ultima volta che vi ho tediato con un pezzo su qualche filmaggio che mi è capitato di vedere. Ora la mia attività di padre di Elia (che tra l'altro sta una meraviglia e cresce bello e forte che neanche a Sparta l'avrebbero sacrificato) ho deciso di tornare per raccontarvi qualcosa. Ma purtroppo le mie visite al cinema si sono rarefatte e anche la visione della televisione mi è venuta meno. tuttavia, in una desolata sera, non ho potuto fare a meno di guardare l'incresciosa fine di un mito della nostra gioventù. Ho rivisto Steven Segal in una delle peggiori cose mai realizzate per il cinema: Out for a kill. Torno a voi con qualcosa che potrei classificare come al peggio non c'è limite, e il ripiano basso dello scaffale nel mio ufficio è comunque troppo elevato per ospitare questa indecenza.

Im Beginn war das Wort und das Wort war bei Gott und Gott war das Wort

Tutti noi abbiamo visto il bel Steve fare l'Aikido contro le forze del male. In buona sostanza un'arte marziale al rallentatore che dobbiamo dire il Segal rendeva superstilosa. Di questo non è rimasto più niente. Il Segal si è convertito al Kung fu ed ha messo su qualche chiletto che neppure l'Orlando Pizzolato riuscirebbe a far dimagrire per fargli finire la maratona di New York che ormai tutti prima o poi fanno s'intende in meno di otto ore e con lo scafandro da palombaro.

Tramare nel buio

In buona sostanza il film racconta di un professore di archeologia cinese che veste come un cinese per tutto il film, quando neanche i cinesi nel film vestono come cinesi che rimane suo malgrado coinvolto in un traffico di droga ordito da un triade cinese non meglio precisata con un consiglio dei saggi e vari distaccamenti in tutto il mondo. L'invischiamento consiste nel farsi ammazzare l'assistente, la moglie e mettere in opera la vendetta perché il senso dell'onore del Segal non è in discussione nemmeno in questo filmaggio (anche se quello del pudore sì). Detto fatto si mette all'opera e scala la piramide del potere della triade girando per mezzo mondo e risolvendo rebus tatuati sulle braccia dei coparioni che man mano elimina. Alla fine arriva al supremo e lo uccide piuttosto rocambolescamente. Tutti contenti, l'onore dei Prizzi è ristabilito ed il Segal trova pure il tempo di amoreggiare con una Cinese del FBI che è stata messa lì per permetterci questo finale, e perché è propedeutica ad una scena lesbo a tre quarti del film.

Perché che ci tedi con questa recensione

Bella domanda? Benché non sia più addentro alle cose di cinema come una volta, ed avendo comunque il ripiano basso dello scaffale nel mio ufficio ben fornito pensavo di avere visto il peggio. Invece come in tutte le amare faccende dell'esistenza umana, il peggio è dietro l'angolo pronto a sorprenderti e a farti esclamare al peggio non c'è limite (beh forse in Italia un buon campionario del peggio lo stanno vedendo sui loro schermi in campagna elettorale. Qualcuno si salva: consiglio a tutti il Moretti che imita Califano in collegamento con Music Farm dalla trasmissione Radio di Fiorello: qualcosa che fa venire le lacrime dall'ilarità. Persino Califano moriva dal ridere). Devo dire che il Segal non mi dispiaceva poi troppo per esempio in Pericolo in alto mare, ma vederlo così ridotto fa proprio male. la domanda che però mi assilla di più è chi gli abbia dato i soldi per produrre queste schifezza. Altri due attori sono precipitati in basso, ma mai così e soprattutto sempre con enorme stilosità. Il Van Damme che lasciata la palestra in Belgio dove si allenava con Tom Po è caduto in basso ed ha fatto Double Trouble con Dennis Rodmann, alias The Menace, alias The Worm e che tutto sommato ha il suo fascino e pregio, ed il nostro buon Leslie Snipes che qualche buon colpo lo ha azzeccato e che nella triade di Blade schifo proprio non fa anche se onestamente i film non valgono nulla: ma lui rimane stilosissimo! Il Segal invece no! Oltre ad un filmaccio riuscito proprio male, si presenta grasso, flaccido e quasi svogliato, come se la vita gli avesse precluso ogni possibilità. Dico io non potevi fare il Califano di turno per i fatti tuoi, piuttosto che continuare? Direte voi, ma la televisione e' il mezzo più democratico che ci sia: se qualcosa non ti piace cambi canale. Vi dirò che non ci sono riuscito. Ho condiviso il dolore del Segal e non intendo del personaggio, ed ho pianto vedendolo fare il Kung Fu. Si sa chi lascia la via per quella nuova, sa ciò che lascia, ma non ciò che trova.

Commento finale

Masticare fiele è meno doloroso per gli occhi e dannoso per la salute che la visione di questo film. Lo sconsiglio caldamente a tutti. Purtroppo come si vede dalla scheda in imdb Steven Segal sarà protagonista di altra spazzatura almeno per quest'anno. Che Dio ce la mandi buona.

Valutazione

Qualcosa che non avrei mai voluto vedere: peggio di Beowulf.

Post-produzione

So che avevo minacciato di pubblicare la recensione della trilogia di Blade e forse lo farò, Ma ho visto anche la Fabbrica di cioccolato e se volete ne faccio una recensione magari comparandola con il film originale che pure ho visto più di una volta.

venerdì, marzo 31, 2006

Firewall (@imdb)


Premiere sponsorizzata Chrysler dell'ultima fatica di Harrison Ford.

La cosa migliore che si possa dire è che era gratis e che l'aperitivo era decente.

Tutto il resto è game over.

Harrison Ford è un esperto di sicurezza di una banca, pur essendo alla soglia dell'AVS ha i figli piccoli e una casa un po' alla Cape Fear. Il tutto è ambientato in Seattle in modo che di tanto in tanto al nostro sia dato di correre sotto la pioggia.

Il cattivo della vicenda è Paul Bellamy, già amico immaginario di John Nash in Beatiful Minds, nella fattispecie il dumbest smart bad guy del pianeta terra, capace di ordire micidiali intrecci con piccole lacune che li rendono dei rocamboleschi fallimenti.

A fare da comprimari ci sono il già T-1000 Robert Patrick e Robert Forster, che in Jackie Brown era l'uomo dell'agenzia delle cauzioni. Le loro parti sono prettamente marginali, ovvero si limitano a venir sospettati di cattiveria di tanto in tanto.

Virginia Madsen, avvinazzata bionda di Sideways, è la decorativa e ciò non di meno coraggiosa moglie di Harrison Ford.

A completare il quadro si ha la Chloe del CTU (Mary Lynn Rajskub) nella parte, rullino i tamburi, dell'assistente precisa, efficente ma tendenzialmente un po' defecapene.

Cast tutto sommato più che discreto e che offre una prestazione per quanto possibile dignitosa, il problema è il fatto che il film è in tutto e per tutto una noia mortale. Al di là dell'assoluta demenzialità di tutti gli aspetti tecnici della vicenda, gli astuti piani del malvagio Bellamy si risolvono immancabilmente in scazzottate, inseguimenti, e l'Harrison che gioca a fare il se stesso ne il Fuggitivo ed Air Force One, prendendo poco dal primo e tutto il peggio del secondo, e non è poco. Anche la locandina del film pare riprendere queste due precedenti fatiche dell'ex Dr. Jones.

Dulcis in fundo un finale davvero incommentabile.


Invero la cosa più entertaining della vicenda era il tizio seduto a fianco che ad ogni apparizione della Chrysler del Ford, sponsor della premiere, esplodeva in eccitati commenti.

In breve: se hai 60 milioni di dollari e nessuna idea tieniti i 60 milioni di dollari che a dirla tutta il seratone del Big Brother, o un'ora e tre quarti di monoscopio erano giusto marginalmente meno eccitanti.

Valutazione: ** (xké di ste idiozie non se ne può più).

giovedì, febbraio 02, 2006

Memoirs of a geisha (@imdb)


I gialdìt son tutti stessi, questo il messaggio intrinseco del film. Che poi qualunque asiatico di qualsivoglia Giappone, Cina, Corea, Vietnam, Thailandia e via dicendo sia pronto a giurare di poter distinguere un cambogiano da un laoita a 18 km di distanza è un dettaglio insignificante, il fatto che riesca in effetti a farlo è solo una postilla, si sa che i gialdìt son tutti stessi.

Tanto uguali sono che il regist Rob Marshall ha ben ritenuto che hongkonghesi, cinesi, malaysiani (e non si dimentichino gli ABC) fossero fino a mai per fare i giapponesi (tanto chi vuoi che se ne accorga). Per aiutare il pubblico a distinguere i personaggi gli uni dagli altri, visto che si sa tanto i gialdìt son tutti stessi, segni caratteristici sono stati distribuiti a destra e a manca, e ad una capitano le lenti a contatto azzurre, all'altro il volto pesantemente sfigurato, un'altra ancora non toglierà mai gli occhiali, e via dicendo. Il pubblico rimbecillito ringrazia commosso.



E come non applaudire il fantasioso sincretismo linguistico che vuole che il film sia parlato in inglese con accento giapponese, per quanto possibile, cui si accompagnano saltuarie espressioni in giapponese (i vari arigatò e simili) che suonano con una non indifferente cadenza occidentale (visto che sono messe a bella posta in mezzo a frasi in inglese con simulato accento giapponese, il film in baka-weisch mi mancava). A tratti ci sono degli americani che dicono qualche frasetta in claudicante giapponese, poi tutti quanti conversano in una lingua comune che si fatica ad identificare. Se l'inglese accentato dei giapponesi (o meglio i supposti tali, ma tanto essendo i gialdìt tutti stessi...) è il giapponese, e l'inglese non accentato degli americani è l'inglese, perché dialogando si capiscono, se invece è tutto giapponese perché gli americani lo parlano meno dei (supposti) giapponesi, e se invece l'inglese tra (supposti) giapponesi è giapponese e quello tra americano o tra (supposti) giapponesi ed americani è inglese perché i giapponesi dell'isolazionismo ultranazionalista imparavano l'inglese infinitamente meglio di quelli dell'era dell'informazione?


Che l'assai meno pretenzioso Last Samurai se li risolvesse molto più elegantemente tutti questi aspetti è un'altra storia, però già che lo facevano, sto Memoirs of a geisha, potevano anche farlo accurato.

Ma veniamo appunto alla storia, la piccola Chiyo, bimba del giappone rurale che una mutazione genetica vuole con gli occhi azzurri, viene venduta ad una casa di geishe, dove, se sarà brava, le verrà concessa l'opportunità di essere iniziata all'entreneusismo nipponico. Sua compagna d'abitazione e di studi è Pumpkin (che immagino essere un tipico nome da patrizia di Kyoto, e che il divenire degli eventi trasformerà in un bel esempio di yellow trash), sua nemesi è Hastumoto (Gong Li) che pur essendo una geisha in carriera decide completamente aggratis di renderle la vita infame e in quattro e quattr'otto riesce a farla relegare al ruolo di schiavetta.

Un giorno la piccola Chiyo è rattristata sopra un ponticello di legno su di un ruscello (il giappone di fine anni '30 guarda infatti fuori tutto come una sorta di wellness feng shui) ed un signore simpatico e gentile (Ken Watanabe) accompagnato da due geishe con ombrellini di carta, le compra una granita e le dice di non lasciarsi andare. Affascinata dall'incontro con la prima persona che non l'abbia presa a pedate o tirata per i capelli, si mette a sognare, di nuovo, di diventare una geisha, in modo da poter godere, di tanto in tanto, della compagnia di persone civili.

Questa reiterata passione per il geishismo si realizza allor quando, alcuni anni dopo, Chiyo è cresciuta fino ad assumere le fattezze da cinese con le lenti a contatto colorate (Ziyi Zhang) e diventa la protegée di Mameha (Michelle Yeoh).


Allorquando in occidente all'aspirante lap dancer basta un sapiente lavoro di silicone e un corso di ballo online da quindici minuti, in un paese in cui il concetto di morte da lavoro viene per comodità riassunto in una parola di tre sillabe (karoshi) le cose hanno da essere più sofisticate, ed ecco dunque come la geisha debba passare anni ad imparare a camminare leggera ed eterea con zeppe di legno da 30 cm e 18 kg cadauana e ad armeggiare un festival di ventagli ed ombrellini di carta, nonché a sputare sangue per riuscire infine ad avere il numero 26 di piede.

Inutile dire che la piccola Chiyo brucia le tappe si trasforma nella top geisha del villaggio in men che non si dica, assume il nome di Sayuri ed entra nello star system locale.

Poi varie vicende, guerra, americani, destino, amore, malinconia, romanticismo, eccetera, eccetera,
tanto il punto del film non è la storia.

Per parlare del bene che offre questa pellicola, il film si guarda in fin dei conti con piacere, si deve dire della gran bella fotografia, delle maestose ricostruzioni, dei bellissimi costumi, dell'ubiquio grande senso dell'estetica. Ritmi lenti, ma sopportabili, attori credibili, soprattutto tenendo conto delle condizioni generali (d'altronde se il regista, o il produttore, sono convinti che il pubblico sia un'orda di rincoglioniti che ci può fare il cast), Memoirs di una geisha un briciolo di senso cinematografico ce l'ha anche.

In sostanza:
Una sorta di grandioso documentario da 50 milioni di dollari in cui sulle oltre due ore e mezza di film scorrono incessantemente belle, bellissime immagini.

Un grosso film, da cui si potrebbero trarre un sacco di bei screensaver insomma. Un grande film? Ahimé temo proprio di no, memoirs of a geisha soffre di una difficilmente guaribile superficialità (e proprio per dirne una che sia una soltanto, anche se un pochino sembra anche, i gialdìt non sono davvero tutti stessi).

Valutazione: ***

lunedì, gennaio 30, 2006

Munich (@imdb)


Vi era una volta il più grande regista di blockbuster del mondo, faceva squali ed incontri ravvicinati, faceva gli extraterrestri, con lui falegnami convertiti alla fantascienza diventavano archeologi ed entravano alti nel firmamento Hollywoodiano. Era un uomo che trasformava in oro tutto ciò che toccava, faceva film per divertire, e ci riusciva alla grande.

Poi una fase più impegnata, forse un po' in pericolo di buonismo, e via a raccontare di guerre, miserie ed umanità nei vari Impero del sole, Amistad, Schindler's List e via dicendo. In parallelo una fase di trash da lucro, e passi ancora Hook, per il mastodontico cast più che altro, ma di Jurassic Park e sequel e di sporcarsi le mani con i Flinstones si faceva fatica a capirne il senso.

In seguito Steven ci riprova con la fantascienza, ed ecco che appare Artificial Intelligence, leggenda vuole sia un soggetto affidatogli da maestà Kubrick in persona, asetticamente estetico e che non racconta nulla, Minority Report, che da un geniale raccontino di Dick si trasforma in una Johnny Mnemonic con dieci volte il budget e un terzo delle idee, e un Guerra dei Mondi che a trattarlo coi guanti si può dirne che lascia il tempo che trova.

Ovvero, il fu re di Hollywood è da un pezzetto che via che far aggrottar sopraciglia fa poco altro.


Nel filone "the world according to Steven" si infila questo Munich, ricostruzioni dei tragici avvenimenti delle olimpiadi del '72 e delle sue conseguenze.

In seguito all'attacco palestinese alla delegazione israeliana alle olimpiadi di Monaco, e alla successiva morte di 11 persone, tra alteti e staff, il governo israeliano decide di applicare l'antica regola dell'occhio per occhio e di eliminare 11 personalità palestinesi di cui si sospetta il coinvolgimento con l'organizzazione dell'attentato.

Il film segue le vicissitudini di Avner (Eric Bana, l'australe dagli occhi tristi dopo Hulk e Troy è altresì detto l'uomo giusto al posto sbagliato) agente del Mossad di basso livello cui viene dato l'inarico di consumare la vendetta, e di farlo senza che sia possibile alcun collegamenteo con il governo.

Il film, tra l'altro di lunghezza notevole, è festa di luci ed ombre. Da un lato vi è una ricostruzione dell'Europa dei primi anni '70 di sicura efficacia, per quanto mi possa esser dato di giudicare (in prima persona non l'ho mai vista, per ovvie ragioni anagrafiche), dall'altro il tentativo fallito di rappresentare dubbi, certezze e debolezze dei vendicatori che diventano vittime del loro ruolo.


A raccontare di persone Steven non è mai stato bravo più di quel tanto... grande estetica, maestose ricostruzione e una cinematografia impeccabile, questo sì, ma l'umanità non emerge, e nemmeno traspare, e questo rende il film a tratti debole. Insomma un romanzone alle Ken Follet.

La pecca è che c'è troppo e di tutto e l'ottimo cast (tra gli altri Geoffrey Rush, Kassovitz, il già Cesare in Rome Ciarán Hinds) ha alla fin della fiera troppo poco spazio per permetter all'umanità dei personaggi di emergere.

Si aggiunga a questo il fatto che lo sviluppo della vicenda verte attorno ad un gruppuscolo di naturfreunde anarco-eversivi germogliato dalla resistenza francese nella seconda guerra mondiale, di cui viene detto poco niente e che si accolla tutto il lavoro difficile, tanto che agli undercover del Mossad è sufficiente andarsene di tanto in tanto a Parigi a recuperare nome e residenza del prossimo terrorista da spedire a far comunella coi lombrichi.

Non va tra l'altro trascurato il dettaglio che in mancanza un minimo interesse nella storia recente, il film rischia di scivolare nel noiosetto.

A dirla breve non manca nulla salvo quel qualche cosa in più.

Valutazione: ****

giovedì, gennaio 26, 2006

Farewell Eddie il Bello

Ok, è il fratello minore del grande Sean, minore di età e minore di fama! Però a me è sempre piaciuto, anche se non ha quasi mai nei suoi passa 50 film interpretato la parte del protagonista. È Chris Penn e purtroppo è morto ieri. Questo vuole essere un modesto ultimo saluto a un attore che la maggior parte della gente non ricorda di aver mai visto, ma che ha avuto lampi di genio e interpretazioni degne di nota in molti film, in pellicole che sicuramente il pubblico ricorda e che sono state a volte rese grandi anche dalla sua prestazione. Non ha avuto la fortuna di Sean, non ha vinto l’Oscar come lui, ma altri della famiglia Penn, tutti artisti, non l’hanno avuta. Insomma viene considerato il fratello sfigato del Sean, ma per me è un grande ugualmente.

È impossibile dimenticare Eddie il Bello de “Le Iene” oppure lo schizofrenico Chez de “I fratelli” (“The Funeral” di Abel Ferrara, 1996). Come tanti attori della sua generazione diventati poi famosi anche Chris è stato lanciato dal film “Rusty il selvaggio” (“Rumble Fish” di F.F.Coppola, 1983) al fianco di Matt Dillon e tanti altri. Ha poi fiancheggiato un giovanissimo Tom Cruise in “Il ribelle” (“All the Right Moves, 1983) e l’anno dopo Kevin Bacon nel mitico “Footloose”. Proprio come quest’ultimo, che è sicuramente più conosciuto dal grande pubblico perché più volte protagonista, non ha mai fatto il grande salto che sono riusciti a fare i suoi compagni dei primi film. Si è lanciato però in una brillante carriera da comprimario con picchi di bravura appunto nei due film citati sopra. Con Tarantino ne “Le Iene” non fuoriesce dal coro di quel gruppo di ottimi attori che ha interpretato il film, ma la sua performance resta significativa. Ne “I fratelli” è al fianco di Vincent Gallo e Christopher Walken, e non solo è alla loro altezza, li sovrasta letteralmente con una prova che gli vale il premio quale migliore attore non protagonista al festival di Venezia del 1996. In questo film è il classico italo-americano affranto dalla morte del fratello con il quale dominava la malavita locale. In un flashback delle gozzoviglie che i due si sparavano, tutto porno-droga-sesso-alcool, per poco non massacra una ragazzina candidata puttanella perché è troppo giovane. Nel mitico finale del film invece, a causa di una specie di concezione un po’ troppo deviata dell’amore per la “famigghia”, fa un macello. Ci regala inoltre grandi monologhi.

Anche in altri film è spesso un gangster, che è il suo ruolo ideale. È un ottimo cattivo, un cattivo da sparatoria ravvicinata, come nella stupenda scena finale di “Una vita al massimo” (“True Romance” di Tony Scott (sceneggiatura Tarantino), 1993 con C. Slater e altri). Poteva benissimo incarnare il boss Tony Soprano dell’omonimo telefilm, lo stile è quello, forse ancora più violento. Ma è più tirapiedi che capo, è più quello che fa il lavoro sporco, che elimina gli incomodi, un Donnie Brasco carriera natural durante. Anche quando fa il poliziotto è un duro ed è uno scagnozzo di Nick Nolte assieme a Chazz Palminteri e Michael Madsen, un gruppo speciale di sbirri – la “Hat Squad” – nella Los Angeles anni ’50 decisi a usare le buone o le cattive per sapere la verità sulla morte di Jennifer Connelly in “Scomodi Omicidi” (“Mulholland Falls”, 1996).

Ultimamente è apparso in “Rush Hour”, “Starsky&Hutch” e in “After the Sunset”, che – lo dico tra parentesi, ma indignato – NON è il sequel di “Before the Sunset” come scrive il Corriere del Ticino di oggi (26.1.2006). “Before Sunset” (senza “the”!) con Ethan Hawke e Julie Delpy è il romantico sequel del romantico “Before Sunrise”, invece “After the Sunset” è il film con Pierce Brosnan e Salma Hayek che rubano gioielli sullo sfondo dei Caraibi.

Ecco, solitamente era Chris a chiudere un film con una qualche sparatoria o una qualche esecuzione, era lui a spegnere la vita ai suoi avversari cinematografici, adesso è arrivato il suo turno, ma nella vita reale. Adios Chris. Farewell.

Io l’ho sempre visto e apprezzato come Chris Penn, non come fratello-di-Sean-Penn, per questo motivo ho scritto queste due righe di congedo.

sabato, gennaio 14, 2006

The 40 years old virgin (@imdb)

Il quarantenne Andy è vergine, ma questo è in realtà l'ultimo dei suoi problemi, non ha amici, non ha vita sociale, passa il suo tempo libero a fare il teenager geek senza internet, altrimenti è commesso all'interdiscount di un megamall di Nowehere USA. Ha la collezione completa dei GI Joe e dei Masters, e quando colora le miniature di Warhammer (che poi non usa perché non conosce nessuno) ci parla spesso e volentieri.


Tra l'altro non ha la patente e va a lavorare in bici, il che in una città infestata dai Naturfreunde come Zurigo non farebbe batter ciglio a nessuno, ma negli Stati Uniti del Giorgio Dabiu Cespuglio è cosa che neanche il peggio pariah.

Un giorno qualunque alcuni colleghi che solitamente diffidano di lui perché immaginano possa essere un serial killer, lo invitano a giocare a poker, e ridendo e scherzando vengono a conoscenza della sua illibatezza. Anche se prima di allora non gli avevano mai dato a trà per più di quattro secondi di fila questa rivelazione lo rende subito interessante e Andy entra in una fase simile a quella che vive un cagnetto appena viene portato in una nuova casa in cui tutti fanno a gara per occuparsene (fortunatamente per Andy l'epilogo non sarà venir abbandonato all'autogrill perché non lo si vuole portare in vacanza con sé), e la prima cosa per cui si adoperano è far sì che tutti al mega mall lo vengano a sapere.


Andy è dapprima seccato che la sua personale vicenda sia oggetto di vociare, scherno pubblico e di morbose attenzioni femminili, che non poco somigliano al voler toccare la gobba al gobbo perché porta fortuna. Poi però, di fronte al sincero interessamento nei suoi confronti da parte dei suoi colleghi, si lancia con loro in una sorta di vita da adolescente alcolista con potere d'acquisto.

Il redivivo Andy incontra una pletora di donne dalle evidenti turbe psichiche (in genere ninfomani o alcoliste o entrambe le cose) che nel magico mondo della suburbia escogitata ad hollywood guardan fuori tutte che al confronto le top model son qua cozze bene. Sceneggiatura vuol tuttavia che da questi incontri non scaturisca nulla di buono.


Casualmente il nostro incappa in Trish (Catherine Keener, già vista in Being John Malkovich), potenziale archetipo del white trash, che una volta la dava via come il pane ma oggi giorno vuole l'approccio sensibil/casto/buonista. Andy che ha l'ansia da prestazione si dice d'accordo con l'approccio alla prima conosciamoci meglio, e i due si lanciano in una noiosissima relazione di andare a mangiare in ristoranti di categoria medio-bassa (stanno in una scialba periferia e sono proletari dopo tutto) e limonare duro sul divano della casa di lei quando i di lei figli stanno per rientrare in casa.

Un dettaglio curioso è che l'attività di lei è avere un negozio in cui la gente porta le cose e queste possono essere acquistate su ebay ma non nel negozio stesso, non sono ancora stato in grado di stabilire se questa sia una trovata muffosamente stantia o un assoluto colpo di genio, urgerà meditare ancora.

Il prosequo una serie di vicende biecamente scontate, poi vissero tutti felici e contenti, che caschi il mondo il II di questo film non lo fanno.

In realtà il film è meno peggio di come, a rileggere le righe sopra, mi pare di averlo dipinto finora. Alla banale vicenda, che viene costellata da vomitosamente banali situazione, una sorta di collezione di cliché di cliché, s'accompagnano dialoghi ad ogni buon conto abbastanza brillanti e un cast che interpreta gli stereotipati personaggi in modo piuttosto simpatico. Alla fin della fiera qualche sincera risata questo film la strappa.

In breve un film di spassosa inutilità.

Valutazione: ***

Ad oggi si dibatte se Plan nine from outer space sia un'assoluta vergogna partorita da un poro bao senza mezzi e con un decadente pazzoide che credeva di essere un vampiro nel cast, oppure l'opera sumprea di una mente troppo geniale perché i suoi contemporanei la capissero.
Dubito che a The 40 years old virgin possa capitare una cosa analoga frà una quarantina d'anni, ma magari a linea di confine sì (non c'entra nulla ma mi andava di dirlo).

martedì, gennaio 10, 2006

L'anno che già corre

Non ho fatto nessun post di capodanno in quanto e non avevo nulla da dire e avevo altro da fare, all geek-o-meter di fine anno contribuirò l'anno prossimo (forse).

Periodo di stanca dopo le feste, poca ispirazione, poco cinema per quel che mi riguarda, pure poca televisione aspettando che il 2006 porti la conclusione della saga dei Soprano's, la seconda stagione di Rome, e quant'altro. La televisione nazionale ci omaggia di Lost, cosa assai poco motivante in realtà, visto e considerato che ad oggi l'hanno vista anche i paracarri, e se alla prima visione il lentissimo ma inesorabile evolvere delle situazioni è deliziosa tortura che non permette di staccarsene, una seconda visione da pochi stimoli (pure le grazie di Evangeline Lilly di cui si viene più spesso che di rado voyeuristicamente omaggiata motivano solo fino ad un certo punto).

Ai pochi che non dovessero averlo ancora visto non si può che consigliare l'ottimo The Constant Gardener dal quale, se non guardato con troppa faciloneria, si può trarre anche qualcosa di utile.

Il nuovo anno ha portato a maggior sapere tecnico al vicino/a di casa tramite il cui access point non protetto navigavo internet da alcuni mesi, che infine ha fatto suoi concetti come password e limitare l'accesso, indi per cui al momento casa mia è ai margini del villaggio globale. Medito e rimugino e penso che a breve mi toccherà prendere provvedimenti, ma per ora questo è lo stato delle cose.

A breve Balmy se ne torna a vivere tra i palmizi del quai del Ceresio, il che essendo le vie dell'internet arduamente numerabili non comporta cambiamento alcuno per questo blog (salvo che ora i film se li dovrà vedere al cinestar con date d'uscita da Africa Subsahariana, vorrà dire che se/quando sarà arrestato per p2pismo gli si porterà arance alla Stampa), ma spoglia questa città di un personaggio di spessore. Ma che dire, si è ahimé tutti naufraghi nelle correnti dell'inesorabile divenire. Buena suerte Balmy.

Ed infine come non rispettare la tradizione elvetoteutonica di farsi gli auguri di buon anno fino a marzo inoltrato in caso non ci si fosse incontrati prima un buon 2006 a tutti.

lunedì, dicembre 19, 2005

Night Watch (@imdb)


Vampiri in una Mosca 2004 che ricorda una Los Angeles 2019.

Il film in questione dovrebbe essere il primo di una trilogia. Il soggetto, non dissimile da quello di Constantine, narra di due fazioni di vampiri, della luce, rispettivamente dell'oscurità, che raggiunta una tregua in una sanguinosissima guerra che rischiava di mettere a ferro e fuoco il mondo, si osservano e controllano a vicenda, nell'attesa dell'arrivo di un predestinato che nel suo prendere una delle parti determinerà l'esito della guerra.

Night Watch offre una fotografia ed un montaggio piuttosto aggressivi, effetti speciali ambiziosi, sebbene non sempre impeccabili (con un look tendente al fumettoso, qualcosa tra il Sin City, che è bene, e L'Immortel, che è meno bene), e un'ambientazione urbana post-sovietico/cyberpunk che fa tanto Kieslowski meets Gibson, un po' alla Avalon per intenderci. Fatto salva qualche sbavatura visivamente ci siamo, cosa non sempre scontata per una produzione russa.

A livello di costruzione della trama le cose non scorrono purtroppo altrettanto liscie come l'olio. La mia impressione è che si sia voluto/dovuto tagliare dritti a più riprese e comprimere oltremodo lo svolgersi degli eventi. Risultato: che i momenti topici siano tali ce ne si rende conto quasi solo a posteriori, il che, in una storia che parla di predestinazione e fato del mondo, è più di un peccatuccio veniale.

Forse l'aggiunta di una voce narrante avrebbe potuto aiutare, forse, più probabilmente non c'era il tempo materiale per costruire i climax necessari. Il feeling è in generale quello che si ha quando si vede un film che vuole essere compendio di una serie televisiva, e che finisce con l'essere pane per iniziati. Io iniziato alla vicenda non sono e temo quindi che di elementi importanti ne ho perso per strada più d'uno.

Come già accennato dovrebbe trattarsi del primo capitolo di una trilogia, indi per cui è lecito sperare che il meglio abbia ancora a venire, anche perché va riconosciuto come l'impalcatura per fare qualcosa di buono ci sia tutta.

Valutazione: *** (inclusa 1/2* di incoraggiamento)

martedì, dicembre 13, 2005

Narnia e simili

Di Narnia in sè parlerò quando avrò visto il film, questione di un paio di giorni, quello che mi ha incuriosito è che surfando per IMDB ho notato che il film veniva dichiarato di "nazionalità" USA. Ora il perché un film tratto da un romanzo Inglese, diretto da un neozelandese, con un cast per la maggior parte inglese più altri luoghi del commonwealth, girato in Nuova Zelanda, sia un film americano.

Ok, il film è prodotto dalla Disney, forse è questo che conta, ma se l'origine del finanziamento è ciò che effettivamente determina la nazionalità di un film allora tutti i film prodotti dalla Columbia dovrebbero dirsi giapponesi, e tutti quelli della Universal francesi.

Saranno dettagli, in fondo è che una fredda mattina di dicembre non può che stimolare la vena polemica di cui mai si è davvero privi.

mercoledì, novembre 16, 2005

FFVII - Advent Child (@imdb)

Il più che convincente Doom è solo l'ultima di una lunga serie di trasposizioni cinematografiche di videogame, e se Super Mario Bros era assolutamente inguardabile, Wing Commander lo si mandava giù perché uscito in anni in cui per la fantascienza era carestia, devo dire che tutto sommato Resident Evil e sequel mi sono genuinamente piaciuti. Da tanto peste e corna ne è stato detto non ho ancora osato addentare Alone in the dark, non foss'altro che perché in fondo in fondo Christian Slater mi piace è vorrei illudermi che Il nome della rosa non sia stato un caso e che True Romance non è solo uno sprazzo di luce in un'altrimenti declinante parabola.


Questo film in CG è una sorta di postfazione del videogame Final Fantasy 7, secondo tanti il più riuscito della serie, rispetto al quale è ambientato alcuni anni dopo e con il quale condivide i protagonisti.

L'ambientazione è, come già nel gioco, un misto di cyberpunk e di romanzo dell'arcadia, anche se in questo caso è la componente noir ad essere dominante.

Advent Child è frutto di una produzione ben più modesta rispetto al bislacco e ben più noto The Spirit within, forse una delle trasposizioni di videogame in film più controverse, la realizzazione è comunque di tutto rispetto, le coreografie (ignoro se il termine sia pertinente quando si parla di personaggi virtuali) di combattimenti ed inseguimenti sono in particolare davvero notevoli.

La storia è purtroppo piuttosto confusa, riprende le parti più mistiche di FF7 gioco, un po' alla finale di Akira per intenderci. Temo risulti completamente incomprensibile a chi non ci abbia giocato da cima a fondo riducendosi ad una sorta di spara e fuggi. Peccato perché il gioco aveva una grande storia, ma forse non è possibile ridurre qualcosa che si svolgeva su decine di ore di videogame ai 100 minuti di film. I principali personaggi del gioco fanno tutti capolino, molti di loro non vanno oltre il marcar presenza e sicuramente non contribuiscono alla fluidità della storia.

In breve, questo Advent Child sembra una sorta di esperimento riuscito al 80%, fruibilissimo, quasi imperdibile, per gli iniziati al finalfantasismo, forse indigesto per tutti gli altri.

Valutazione: ***(* per chi ha giocato a FF7 in modo più o meno estensivo)

mercoledì, novembre 09, 2005

Flightplan (@imdb)


Panic Room ad alta quota?

Jodie Foster è un ingegnere aeronautico (no, il "una ingegnere" urta troppo la mia sensibilità fonoestetica per poterlo usare), di nome Kyle, ma poco importa visto che non ci si dimentica che sia Jodie Foster neanche per mezzo secondo, che ha vissuto per anni a Berlino (le prime battute del film sono in tedesco, tanto che mi ero già messo a piacchiare chi aveva preso i biglietti pensando di essere finito ad una proiezione doppiata) dove a progettato un aereo che all'occhio somiglia tanto al A380 ma che di nome fa 8747 (giusto per non scontentare nessuno di qua e di là dell'Atlantico).


Jodie ha da pochi giorni perso il marito e stà rientrando negli Stati Uniti per dargli degna sepoltura (la salma fa parte del bagaglio). Con lei viaggia la figlia di sei anni, che visto che viene detto si sa essere sotto shock, anche se all'occhio di colui che nulla sa dei bimbi pare piuttosto normale.


L'aereo è capitanato da Sean Bean (tra le altre cose Boromir in Lord of the Ring, il Cowboy in The Big Empty, Ulisse in Troy, nonché cattivo in una non trascurabile quantità di blockbuster) tra le hostess si ha Erika Christensen (già andata ammale in Trafic e prima della classe che strippa male durante il SAT in The Perfect Score) mentre l'addetto alla sicurezza da post 11 settembre è Peter Sarsgaard (faccia da schiaffi omofoba in Boys don't Cry, faccia da schiaffi yuppie e bangante Denise Richards in Empire, faccia da schiaffi tossica in The Salton Sea e faccia da schiaffi di cui non ricordo il ruolo in Garden State).


Altri passeggeri comprendono famiglie rompipalle, arabi assortiti, all-american che si scagliano contro gli arabi assortiti alla prima occasione ma poi si scusano perché in fondo sono brave persone, e via dicendo.

Jodie si assopisce e quando si sveglia la figlia non c'è più. Si lancia alla ricerca e dapprima viene aiutata dall'equipaggio e ha sostegno e simpatia da parte dei passeggeri. Fin qui nulla che il trailer già non abbia svelato, e fin qui tutto bene, ciò che segue svela il resto della trama, quindi se non l'avete visto e ne avete l'intenzione fate attenzione. Gente avvisata mezza salvata.

Le ricerche procedono ma la bimba non salta fuori e a breve il capitano le fa sapere che da terra gli è stato comunicato che la figlia è in realtà morta assieme al marito e che lei stà vivendo in uno stato di allucinazioni.

La tensione sale e per un certo lasso di tempo si ha il dubbio che Jodie possa effetivamente non starci dentro più di tanto e vedere cose che non esistono. L'aereo è di dimensioni ciclopiche, tre piani e mezzo, con ampi volumi inutilizzati, griglie e pannelli, scalette, e via dicendo, lo stile è quello dell'architettura allo spreco delle basi segrete dei cattivi dei James Bond, in cui nel cunicolo subacqueo da cui dovrebbe uscire il sottomarino automatizzato con i missili atomici per distruggere Washington, Londra, Pechino e Mosca ci si è premurati di installare file di lucine azzurre. Trovare una bimba in un ambiente di questo genere somiglia alla proverbiale ricerca dell'ago nel pagliaio, anche perché Jodie, che con il procedere del film svela doti atletiche e di furtività degne di un navy seal dapprima si lancia in iniziative isteriche ed inutili in modo da ritrovarsi addosso gli occhi e le antipatie di tutti i passeggeri.



Si scopre che il faccia da schiaffi è in realtà un crudele criminale che ha ordito un sofisticato piano, al cui confronto l'assassinio di Kennedy era plain vanilla, per ricattare la compagnia aerea e far cadere la colpa su Jodie. Il piano prevedeva i seguenti passi: uccidere il marito di Jodie, mettere dell'esplosivo nella bara, rapire la bambina per mandare Jodie fuori di testa, aspettare che Jodie senza ragione alcuna apra la bara del marito (sigillata con un codice), recuperare l'esplosivo, piazzarolo, ricattare la compagnia aerea che seduta stante verserà 50 milioni di dollari su di un conto irrintracciabile(?), far atterrare l'aereo in un luogo dimenticato da Dio, far credere a Jodie che in realtà la gente stà scendendo per permettere di svolgere una ricerca più accurata, far ammazzare Jodie dalle teste di cuoio e infine, e giusto per essere più efferati, far saltare in aria aereo e bambina. Ora è evidente che per ordire un piano di questo genere bisogna essere completamente deficenti, ulteriori indizio in questo senso è il fatto che la complice del faccia da schiaffi sia una hostess ipercretina che alla prima difficoltà va in panico e fugge.

Il piano sopra descritto è talmente scemo che Jodie riesce a sventarlo senza particolari intuizioni, i cattivi muoiono o finiscono in prigione, il capitano si scusa per non averle creduto e i passeggeri americani e arabi (nel frattempo diventati amiconi) le danno pacche sulla spalla e si dicono tra di loro cose del genere "hell yeah, she never gave up".

Il film è una produzione hollywoodiana di primo piano, quindi tecnicamente impeccabile, ha un buon cast, e una sceneggiatura che regge per i primi 35 minuti. Ha il pregio di poter essere guardato a cervello semispento, i personaggi sono pochi e non si fatica a distinguere i buonim, i brutti e i cattivi, quindi se non si ha il vizio di cercare la coerenza nelle storie il film va giù benone. Di film simili ce n'è parecchi, così su due piedi mi vengono in mente Passenger 57, Executive Decision, Airforce One e il recente Red Eye... diciamo che il connubio film ambientato su aereo, sceneggiatura debole pare quasi la regole (dei film precedentemente citati ad istinto salverei solo Passenger 57). Probabilmente il rammarico più grande è che fino ad un certo punto il film tiene, si ha il dubbio che la bambina a bordo non ci sia mai stata, ci si chiede dova la storia possa andare a parare, poi il tutto si sgonfia come un soufflé mal fatto, peccato.

Il titolo non ha un significato particolare, tolto quello di essere qualcosa che c'entra con l'aviazione, ne è particolarmente brillante, e in questo è in linea con il resto del film.

valutazione: ***

lunedì, novembre 07, 2005

Michel Vaillant (@imdb)


Torno a tediarvi con una piccola recensione di un film ormai passato in DVD, non nuovo (è del 2003), di cui pochi hanno memoria (di sicuro il mio ospite, l'Imperatore) e che mi permette di gettare fango sullo stato del cinema contemporaneo nel Bel Paese (mi pare giusto in questo Blog).

Ordire una trama

Dal mondo dei fumetti, l'introverso re dell'auto-sciovinismo francese (Michel Vaillant) corre per salvare la vita del padre nella 24h di Le Mans edizione 2002 e ci riesce! La trama è questa e non c'è nulla più che valga la pena di aggiungere.

Se vogliamo dirla con Axel Roses... It's a story of a man, who try to work hard on his own... come tante ce ne sono.

A differenza di molti francesi e ciò non è poco, il Vaillant risulta pure simpatico, senza scalfire la simpatia suscitata da Gérard De Pardieux che parla male di se stesso, dei francesi, del cinema francese e del cinema tout court (uno humor molto inglese, cosa che per un Francese non è poco).

Every rose has its thorn... till you drop da bomb!

Dirò subito che questo film non è un capolavoro, ma non merita nemmeno l'ultimo ripiano dello scaffale d'angolo dove tengo il Beowulf (che a forza ho voluto comperare, anche se l'Imperatore me ne parlò male), Battlefield Earth ed altre cose di cui se troverò il coraggio farò outing. Preciso che si tratta di un ennesimo film bastardo di Luc Bessson, che non si è occupato della regia, ma sicuramente qualcosa ha scritto e qualche doblone ha speso.

Vi chiedo perché il Besson, che ha giurato di fermarsi a dieci film come regista (ma che a ben vedere ha le mani in pasta in almeno un altro centinaio) s'è impeganto come scenaggiatore in questa produzione minore alla Taxi? Di primo acchito potrei rispondervi come fece Caz de Kan (il fidanzato di Paola Banale) alla domanda sul perché bevesse Jägermeister ("Io non so perché bevo Jägermeister!"), ma impegnandosi più a fondo (mai accettare la prima offerta) la vera ragione emerge lampante: uno beve l'idraulico liquido e dice che è buono, perché gli hanno regalato un sogno (la notorietà) e dato tanti dobloni che nemmeno Gennaro D'Auria e Cicciput sanno come. Scusate la distrazione, per tornare a noi, la disarmante risposta è che questo film permette di fare cassa, modesta, ma sempre cassa ed inoltre ha il pregio di dare una possibilità ad alcuni figli di un Dio minore di sedere al desco dei grandi almeno per una volta. È lasciatemi dire che è sicuramente una pratica più degna dell'andar ospite da Maurizio Costanzo o sull'Isola dei Famosi. Più succintamente il cinema francese può permettersi degli essais di grande tecnica (alla "volevamo vedere se potevano girare delle scene mozzafiato alla 24h di Le Mans e l'abbiamo fatto!"), anche se la trama è ben lungi dal frangigonadismo dei film finto-intellettuali.

Au contrair du cinéma, il cinema italiano queste produzioni non se le sogna nemmeno.
Tutti a dire che i cinema italiani sono affollati da produzioni di poco valore (perché i Vanzina che fanno) provenienti dall'estero, con pochi contenuti e molti effetti speciali. Nell'italico cinema, non ci sono i soldi ed i mezzi (e forse neanche le persone) in grado di usare al meglio le tecniche del cinema contemporaneo: un film non è solo il diaporama alla Nanni Moretti o non è solo Stefano Accorsi che rifà se stesso all'infinito nel mezzo di un'ennesima crisi di mezz'età e a cui francamente invidio solo di non aver ceduto al lato oscuro della forza dopo aver pomiciato con Martina Stella ed essere quindi finito in casa di un travestito a tirar bamba.

Il cinema è anche tecnica, potenza dell'immagine, suono, musica, colore! Insomma se la gente va al cinema al posto di starsene a casina a godersi un DVD, qualche differenza ci dovrà pur essere.

A gettar ulteriore benzina sul fuoco, ricordo che l'Italia ha inviato agli Oscar, come candidato per il premio di miglior film straniero, un film girato in molte lingue tranne che in Italiano: per certo un bel film, ma gli americani che sono tutto ed il contrario di tutto, ma che certamente mostrano un po' più di pragmatismo di noi abitanti della vecchia Europa, non ci sono cascati e l'hanno rigettato. Non hanno forse capito che l'effetto speciale era proprio girare un film italiano non in lingua italiana?

Ecco il Vaillant è l'archetipo di questi film di mezzo che in Italia non verranno mai realizzati: trama semplice, scene d'azione guardabili e fotografia da paura.

Summa summarum

Mi fermo qui e vi consiglio il Vaillant per le serate in cui non avete voglia di pensare troppo e volete vedere delle discrete scene d'azione e sentire il rombo dei motori. Se avete visto Driven, mi dispiace per voi, e consolatevi con il Vaillant.

Su scala imperiale: ***!

Postproduzione


Vi dico anche:

  • Bella fotografia anche se i blu ed i rossi sono un po' troppo saturi
  • Alcune scene girate nel garage, nei box e nella galleria del vento ricordano condizioni di luce soffusa e polverosa, che hanno fatto impazzire il buon Ridley Scott al tempo di Blade Runner e che ancora oggi sono difficili da girare
  • Il mio Tag McLare ha sofferto alcuni passaggi forse dovuti alla saturazione eccessiva dei colori e forse ad un trasferimento non proprio di altissima qualità (doppi contorni)
  • A volte il voto su imdb è troppo crudele: qualcuno è riuscito a dare a Driven 4,4 (è pure vero che Verona Feldbusch porti almeno 4 punti alla causa) ed al Vaillant solo 4,9. A mio avviso bisogna almeno aggiungere un punto al Vaillant
  • Vi ho volutamente messo un sacco di hyperlink, affinché possiate andare a spulciare un po' nelle vite di alcuni personaggi. Guardate per esempio cosa ha scritto Maurizio Costanzo
  • Mi rendo conto di aver un po' esagerato, ma il Blog dell'Imperatore è anche un luogo in cui l'Ego possa emergere in tutta la sua prepotenza ed arroganza!
  • Versione 1.01

venerdì, novembre 04, 2005

Wallace & Gromit and the curse of the Were-Rabbit (@imdb)

Come il chilometrico e diascalico titolo suggerisce questo film racconta delle vicende dell'accoppiata Wallace e Gromit alle prese con il coniglio mannaro.

Wallace, umano di grande talento inventivo ma carente in quanto a senso pratico, e Gromit, cane che da dietro le quinte fa funzionare le cose, sono un'unità di emergenza che salva gli ortaggi della città dalle voraci fauci dei moltissimi coniglietti presenti in zona. Nella città è diffusa infatti una preoccupante forma di feticismo che riguarda verdure ed ortaggi, e che culmina ogni anno con il concorso della carota d'oro organizzata dalla nobil donna Lady Campanula Tottington (Totti per gli amici).


Quando si diffonde la voce di della presenza di un gigantesco coniglio capace di mangiare una zucca con un morso il panico dilaga per le strade, Wallace & Gromit da un lato e il crudele e sanguinario Victor Quartermaine, viscido pretendente alla mano di Lady Tottington, dall'altro cerceranno di fermarlo. In questo pericoloso gioco a tre chi sopravviverà allo scontro finale?


Il film è un'animazione in stop motion con i personaggi realizzati in plastilina, alla Chicken Run per intenderci, ed è il più recente capitolo di una lunga serie di avventure con protagonisti Wallace e Gromit. La realizzazione è dal punto di vista tecnico impeccabile, purtroppo a livello di contenuti non ci siamo.

W&GatCotWR è un film noioso, i personaggi, cominciando con i protagonisti, sono solo raramente simpatici, poche, pochissime le battute, inseguimenti che si protraggono fino alla noia, poco più di un Tom&Jerry di un'ora e mezza insomma... sarà che i vari Shrek, Monster, Nemo e i film di Miyazaki ci hanno abituati troppo bene ed ora nei confronti dell'animazione si hanno troppo pretese a livello di contenuti, ma sia quel che sia, di questo film non mi sento di parlar bene più di tanto.


Va detto che la platea scoppiava in risate abbastanza spesso, quindi forse il problema è mio, non del film. Mi sento però di aggiungere che il pubblico in sala era velatamente sull'intelletualoide/alternativeggiante, e in piena teoria del complotto mi permetto di sospettare che si trattasse di neo luddisti dell'era dell'informazione, odianti hollywood e la computer graphic e più che pronti ad apprezzare questo W&GatCotWR anche solo perché fatto in Inghilterra e con la plastilina.

Da parte mia sono convinto che la computer graphic ha salvato l'animazione, Galaxy 999 era meglio di Titti e Silvestro (e devo aggiungere che all'epoca, ed ero piccolo, quelli che cercavano di convincermi del contrario adducendo avantutto il fatto che i giapponesi facevano i cartoni animati col computer mi parevano dei poverini, in primis che se ne frega di come sono realizzati, secondariamente non riesci a farmi credere che è interessante vedere un gatto che cerca all'infinito di catturare un canarino senza riuscirci) e che con la plastilina si possono fare grandissime cose (questo film in fondo ne è la riprova). Altresì sono certo che quando non si ha niente da dire si avrebbe un'ottima occasione per tacere. Visto che questo, che per gli sceneggiatori dovrebbe essere un mantra, vale anche per me, termino qui il mio commento a questa produzione non priva di qualche spunto ma lungi dall'essere davvero convincente.

valutazione: ***

mercoledì, novembre 02, 2005

Crash (@imdb)

Crash è un film corale, cioè un film con dentro un sacco di attori che all’inizio sembrano centrare poco uno con l’altro, il classico film alla visione del quale lo spettatore solitamente esclama: “ah, guarda, c’è anche lui! Bravo lui! Ha già fatto quell’altro film… com’era già????”, oppure: “Oh no, c’è pure questo, noooo! Fa schifo!”, pieno di situazioni ed episodi di un’apparente normalissima esistenza metropolitana. Si svolge infatti a Los Angeles, una città “non-città”, nel senso che non ha un centro definito sullo stile europeo, una città dispersiva, come lo sono i suoi milioni di abitanti di tutti i colori e tutte le razze, una grande insalatiera riempita di ogni sorta di popoli e personaggi. L’interazione di questi personaggi, o meglio solo un campione di essi, è la trama del film. Aggiungiamoci un pizzico di ultra-attuale intolleranza e “diffidenza dell’estraneo” – una volta lo si sarebbe forse definito “odio razziale”, ma oggi le varie sfumature rendono il discorso altamente complicato – e abbiamo il quadro che il regista (e sceneggiatore) Paul Haggis dipinge della città degli Angeli (Paul Haggis ha tra l’altro scritto la sceneggiatura di Million Dollar Baby, che non è poco, e quella del prossimo film del Clint).

A rendere il film interessante e senz’altro bello da vedere un folto gruppetto di attori efficaci, poco star e molto professionisti, come ci si augura spesso, ma poche volte si viene accontentati. Avete presente Traffic (S.Soderbergh, 2000)? Ecco, lo stesso tipo di film, non sul tema della droga, bensì sulla difficile comprensione e interazione tra l’afroamericano, il cinese, l’ispanico, il caucasico, l’iraniano e l’anglosassone, tra il ladruncolo, il procuratore politicante, il poliziotto, il regista, il detective e la dottoressa, tra il povero e il ricco, tra il malato e l’assicurazione, tra la serratura e la porta, tra la strada malfamata e il quartiere tranquillo, insomma, volendo semplificare: il male del momento, almeno nella Los Angeles di Haggis. Così ritroviamo tutta una serie di attori bravi e meno bravi, famosi e meno famosi che interpretano l’esistenza di normali cittadini intenti a fare il proprio lavoro, ma con evidente tristezza e incazzatura di fondo.

I vari personaggi di questo circo urbano sono, in ordine sparso:

  • classico detective afroamericano con la testa sulle spalle, che sembra non faccia nulla, ma alla fin fine il suo dovere lo compie in piena regola, tipicamente proveniente dal ghetto – la madre è drogata e il fratellino è teppistello-ladruncolo – ma estraniatosi da esso. Se la fa con la collega, messicana, anche se lei apprezza poco quando rispondendo al telefono lui dice a sua madre di non rompere perché si sta scopando una bianca. Interpretato dal bravissimo Don Cheadle in gran forma, reduce dal successo di Hotel Rwanda e ormai lanciato – e ne sono ben felice – verso una gran carriera cinematografica. Oltre a doversi subire la merda quotidiana della sua città, scoprirà con disgusto come gira dalle parti alte, quando viene convinto a contar palle per semplificare il lavoro al procuratore. In più, anche se si occupa della madre come meglio riesce, questa non se ne accorge e anzi lo incolpa per la brutta fine del fratellino ladro. È l’anima del film, il personaggio chiave, anche se non per forza ce ne sarà uno solo.


  • altrettanto super-classico Matt Dillon, in gran spolvero con quell’aria da moderno Atlante (cioè: “io tengo il peso del mondo sul gobbo, e ne sono fiero, anche se non è per niente facile”) agente stradale veterano e razzista del LAPD, naturalmente non sulla stessa lunghezza d’onda del giovane collega Ryan Phillippe (di cui dirò poi) perché sa già come gira il mondo vero. Si ritrova con il padre sveglio la notte per gravi problemi di prostata e la prospettiva di adeguate cure mediche e sostegno andata in fumo, perché si è messo a fare la parte del padrone della piantagione di cotone della Georgia con la nera sbagliata, cioè l’irremovibile impiegata dell’assicurazione (attrice già vista altre volte). Anche se usa mezzi poco ortodossi e approfitta della divisa che indossa, risulterà essere l’eroico poliziotto salva-vite e guarda caso non una vita qualsiasi.


  • la coppia Sandra Bullock-Brendan Fraser, lui stiloso procuratore pubblico della città, bianco, ricco e preoccupato soprattutto della sua rielezione più che del crimine dilagante, e lei sua moglie che va in paranoia psicotica contro tutti coloro che non possono vantare una linea genealogica diretta con la vecchia Inghilterra, perché due ladruncoli neri hanno appena rubato loro con nonchalance l’auto (jeeppone parecchio costoso, dev’essere il pendant americano del Cayenne) in pieno centro. Addirittura fa una scena di puro delirio col marito, perché il tizio che sta cambiando le serrature della casa (sempre a causa della psicosi del momento) è ispanicheggiante, è rasato, porta pantaloni ampi e ha un tatuaggio, e arriva anche a prendersela con la donna di casa, pure ella d’origine centro o sudamericana. Da antologia i problemi politico-razziali che assillano il Brendan-procuratore: vuole dare una medaglia al valore a un pompiere per ingraziarsi il popolino (vedi dialogo sotto), ma questi è di origine irakena e si chiama proprio Saddam, e nel contempo si ritrova con un poliziotto nero ucciso da un collega bianco, che a torto o a ragione sarà sacrificato sull’altare della propiziazione dell’elettorato afroamericano.

    Rick (il Brendan): Why do these guys have to be black? No matter how we spin this thing, I'm either gonna lose the black vote or I'm gonna lose the law and order vote!
    Karen (sua assistente afroam.): You know, I think you're worrying too much. You have a lot of support in the black community.
    Rick: All right. if we can't duck this thing, we're gonna have to neutralize it. What we need is a picture of me pinning a medal on a black man. The firefighter - the one that saved the camp or something - Northridge... what's his name?
    Bruce (altro assistente): He's Iraqi.
    Rick: He's Iraqi? Well, he looks black.
    Bruce: He's dark-skinned, sir, but he's Iraqi. His name's Saddam Khahum.
    Rick: Saddam? His-His name's Saddam? That's real good, Bruce. I'm gonna pin a medal on an Iraqi named Saddam.

  • la famiglia iraniana, padre, madre e figlia, che pur essendo a tutti gli effetti americana non riesce a sentirsi integrata al cento per cento, soprattutto il padre. La figlia, invece è sveglia, dottoressa affermata, molto poco mediorientale e molto made in USA nei modi. Il padre, commerciante con piccolo negozietto tipico stile “mercato di Damasco”, vuole assolutamente comprarsi una pistola per sentirsi più al sicuro, ma nel più classico dei casi, il rivenditore americano lo prende per terrorista islamico che gli farebbe saltare le torri gemelle un’altra volta. Alla fine ci pensa la figlia a risolvere, e il colore dei verdi dollaroni piace molto di più al rivenditore che la retorica antiterroristico-razziale. Comprerà delle cartucce a caso, okkio al dettaglio importante! L’iraniano, pur essendo fiero di avere almeno la figlia in gamba, non è per niente tranquillo con se stesso e col mondo, e quando arriva lo stesso riparatore di serrature che ha fatto andare fuori di nervi la Bullock, lo insulta pesantemente perché non gli rimette a posto la porta, che però non chiude bene di suo, senza problemi alla serratura. Il poro ispanico se ne va senza ricevere il becco di un quattrino, carico di insulti razziali del nostro amico persiano, che vede il diavolo in ogni angolo, e la porta se ne resta rotta! Porta rotta, furto assicurato, assicurazione non paga! Il persiano ci resta di merda e in un raptus di follia vorrà vendicarsi con chi ritiene responsabile.

  • arriviamo al già citato fabbro ispanico del servizio serrature 24h/24. Il soci, che sta subito simpa a tutti, si spacca di lavoro che evidentemente non lo soddisfa tanto, ma lo fa per la sua piccola figlia – cui in uno slancio di ottimo savoir-faire genitoresco donerà l’invisibile mantello della protezione contro ogni cosa per farla uscire da sotto il letto – di modo che possa vivere in un bel quartiere più tranquillo fuori dal ghetto. Si beccherà insulti da tutti e rischierà forte di fare una pessima fine insieme alla famiglia.


  • coppia di afroamericani affermata: lui regista televisivo di successo, sta tornando (anche lui con il mega jeppone di cui sopra) da una serata di gala alla quale ha ricevuto un premio. La moglie, Thandie Newton (la bella di Mission Impossible II), contenta del suo ometto, gli sta facendo il servizio in auto. Sfortuna vuole che i due poliziotti Dillon-Phillippe che stanno cercando l’auto rubata del procuratore, si accorgono delle attenzioni particolari della nostra, e decidono, o meglio, il Dillon decide, di romper loro le uova nel paniere. Solita scenetta da sceriffi americani che fanno scendere i due con le mani bene in vista, e il Dillon si mette a perquisire in modo tutt’altro che disinteressato la tizia in vestito da sera, mentre umilia pure il marito facendogli fare la figura dell’impotente davanti alle angherie del più forte. La cosa chiaramente non va giù alla moglie, che una volta a casa tira il pacco al marito che non ha saputo difenderla. Il tizio è dispiaciuto, ma sa che ha agito nel modo più ragionevole. Però, il giorno dopo, quando si becca in faccia una specie di ultimatum dal protagonista bianco del telefilm che sta girando, si rende conto di quanto è troppo compiacente con i bianchi e di quanto si fa mettere i piedi in faccia da un sistema, del quale ormai si sentiva praticamente far parte. Decide di reagire, in maniera discutibile, e riuscirà infine, non senza rischio e con l’aiuto del polotto Ryan Phillippe a risolvere la situazione e a placare la sua coscienza.


  • i due ladruncoli d’auto afroamericani usciti direttamente dal ghetto. Bellissimi personaggi questi due, rappresentano la parte spiritosa del film. In classico stile rappeggiante west-coast-addicted uno di loro spara sentenze su ogni cosa che vede, ogni situazione, ogni persona che incrociano. Ogni più piccola cosa è un atto di razzismo dei bianchi nei confronti dei neri, un esempio su tutti: secondo lui i bus hanno i vetri grandi e grossi così si può vedere i pori brotzi che sono costretti a prenderli e che per la maggior parte non sono bianchi. Il suo amico è più tranquillo e si limita a cercare di confutare ogni argomento dell’altro, con poco successo, perché quello, per farla breve, ne ha sempre una pronta. Insomma sti due, tra uno sclero e l’altro si mettono a rubare auto, ma non quando sono vuote, parcheggiate in culo al mondo o roba del genere. No, in pieno centro, quando la gente sta per salirci e con la pistola puntata. Prima fregano il barcone del procuratore, provocando una crisi epocale a sua moglie, poi, scappando, investono un cinese che stava chiudendo il suo furgone. Visto che questi rimane incastrato sotto l’auto in puro stile pulp, lo devono salvare e lo abbandonano davanti a un ospedale. Il giorno dopo, se la prendono con il regista televisivo di cui sopra, ma costui stavolta, nel suo tentativo di vendicarsi del mondo, non ci sta a farsi mettere i piedi in faccia ancora una volta e reagisce pesantemente, ferendone uno e portandosi dietro in una pazza corsa in auto il secondo. Va a finire che interviene la pola, che il regista resiste, fa prova di forza con gli sbirri e se la cava grazie all’intervento di Ryan Phillippe che lo riconosce e vuole riparare al torto che gli ha fatto il collega la sera prima. Il ladro decide di rimanere schiscio e si farà mollare da qualche parte dal regista che ovviamente non gli risparmia la morale, roba del tipo: “è colpa dei neri come voi se anche noi neri in ordine siamo considerati merde”. Caso vuole che si ritrova davanti al furgone del cinese che ha tirato sotto la sera prima, e naturalmente glielo gratta. Lo porta al ricettatore e con grande sorpresa di tutti ci si accorge che è pieno stipato di clandestini orientali, poi meglio definiti dal ricettatore, che fa prova di ottima conoscenza nel campo, in tailandesi. Il ladro nero stavolta rinsavisce e al posto che farsi un mega gruzzolo vendendo i thai, li porta a little china e li molla in strada, liberi.


  • cinese trafficante in clandestini e sua donna/moglie molto apprensiva. Del cinese abbiamo già detto, il suo ruolo si limita a essere mezzo spiaccicato sotto un’auto e cavarsela per un soffio. Della moglie o tipa che sia facciamo conoscenza subito all’inizio del film, ma ci si fa poco caso. In questo frangente se la sta prendendo con la partner messicana del detective nero di cui al primo punto. Per via di un incidente tra di lei e i due sbirri, e per via che c’ha una fretta matta, sta china se la prende pesantemente sia con la stradale, sia con la messicana, insultandola senza sosta. Forse si sente più americana di lei perché i suoi nonni sono arrivati in California in un container di una nave mercantile e non hanno attraversato a piedi il confine tagliando la ramina. Alla fine si capisce perché aveva fretta, doveva raggiungere il suo uomo all’ospedale, tutta agitata si mette a insultare anche le infermiere, anche qui con argomenti linguistico-razziali. Fine della storia: il cinese che è bello pesto, ma vivo e vegeto, e soprattutto c’è ancora con la testa, dice alla tipa di sbrigarsi ad incassare il contratto per la vendita dei clandesta, giustamente prima che qualcuno si accorga che in realtà non sono più in mano sua.


  • infine, un ultimo personaggio tra i più principali, l’agente stradale del LAPD Ryan Phillippe (nella vita reale marito di Reese Witherspoon). Come detto questi è dapprima di pattuglia con il veterano Dillon, ma poi, da buon pivello, non gli aggradano i suoi metodi spicci e chiede di avere un altro partner. Il capo, un afroamericano, in sostanza gli fa capire che la motivazione che il Dillon è troppo razzista non funzia, e non sarà certo lui a cambiare le cose per una tale motivazione, visto che gli spuzza il cadreghino che come nero si è guadagnato sudando parecchio. La soluzione che propone al poro agente è di farsi passare per uno che ha la scorreggite patologica cronica e che si vergogna a stare con altri di pattuglia. Al Ryan sta soluzione non va giù manco per le palle, ma si rende conto che è l’unica per difendere il suo idealismo, così ingoia il boccone amaro, si becca la tirata di capelli del Dillon che gli fa capire che non c’è posto per l’idealismo dopo anni e anni di servizio, e se ne va in giro da solo. All’inizio gli va bene, riesce pure a rifarsi della sera prima salvando il regista come minimo da un arresto. Peccato che più tardi, tornando a casa, carica il secondo ladruncolo d’auto che era rimasto a piedi e faceva stop. Tutto ad un tratto capirà cosa intendeva dire il buon vecchio Matt Dillon.

I vari episodi e situazioni, come in parte già raccontato sopra, si intrecciano. I tanti personaggi diversi interagiscono. Ad alcuni va bene, e la vita continua, ad altri va peggio, ma la vita continua lo stesso. Non è una storia che inizia e finisce, è un film che racconta dei momenti, le persone si scontrano, fanno “crash” quando vengono a contatto, come dice il detective interpretato dal superlativo Don Cheadle, la morale, se vogliamo, del film: “It's the sense of touch. In any real city, you walk, you know? You brush past people, people bump into you. In L.A., nobody touches you. We're always behind this metal and glass. I think we miss that touch so much, that we crash into each other, just so we can feel something.

Succedono altre cose oltre a quelle già descritte, ma non è il caso di elencarle tutte per non togliere la sorpresa e il piacere a chi non l’ha ancora visto. Ogni dettaglio è curato, quasi niente è fatto o detto a caso, nemmeno la storiella del mantello invisibile proteggi-da-tutto della figlia del fabbro ispanico. Stilisticamente non c’è niente da dire, ottima sceneggiatura, ottimi attori, ottimo regista, resta da vedere se sottoscrivere il messaggio che vuole far passare. È il quadro di una società malata, intollerante, che non sa più come comportarsi con chi sta intorno, chi vive la vita nella stessa, grande, odierna città: una Los Angeles sulla buona strada per diventare nel prossimo futuro la megalopoli multietnica immaginata da Philip K. Dick e Ridley Scott in Blade Runner.

Andate a vederlo, vale sicuramente la pena!

Imperator rating skala: ****