mercoledì, novembre 16, 2005

FFVII - Advent Child (@imdb)

Il più che convincente Doom è solo l'ultima di una lunga serie di trasposizioni cinematografiche di videogame, e se Super Mario Bros era assolutamente inguardabile, Wing Commander lo si mandava giù perché uscito in anni in cui per la fantascienza era carestia, devo dire che tutto sommato Resident Evil e sequel mi sono genuinamente piaciuti. Da tanto peste e corna ne è stato detto non ho ancora osato addentare Alone in the dark, non foss'altro che perché in fondo in fondo Christian Slater mi piace è vorrei illudermi che Il nome della rosa non sia stato un caso e che True Romance non è solo uno sprazzo di luce in un'altrimenti declinante parabola.


Questo film in CG è una sorta di postfazione del videogame Final Fantasy 7, secondo tanti il più riuscito della serie, rispetto al quale è ambientato alcuni anni dopo e con il quale condivide i protagonisti.

L'ambientazione è, come già nel gioco, un misto di cyberpunk e di romanzo dell'arcadia, anche se in questo caso è la componente noir ad essere dominante.

Advent Child è frutto di una produzione ben più modesta rispetto al bislacco e ben più noto The Spirit within, forse una delle trasposizioni di videogame in film più controverse, la realizzazione è comunque di tutto rispetto, le coreografie (ignoro se il termine sia pertinente quando si parla di personaggi virtuali) di combattimenti ed inseguimenti sono in particolare davvero notevoli.

La storia è purtroppo piuttosto confusa, riprende le parti più mistiche di FF7 gioco, un po' alla finale di Akira per intenderci. Temo risulti completamente incomprensibile a chi non ci abbia giocato da cima a fondo riducendosi ad una sorta di spara e fuggi. Peccato perché il gioco aveva una grande storia, ma forse non è possibile ridurre qualcosa che si svolgeva su decine di ore di videogame ai 100 minuti di film. I principali personaggi del gioco fanno tutti capolino, molti di loro non vanno oltre il marcar presenza e sicuramente non contribuiscono alla fluidità della storia.

In breve, questo Advent Child sembra una sorta di esperimento riuscito al 80%, fruibilissimo, quasi imperdibile, per gli iniziati al finalfantasismo, forse indigesto per tutti gli altri.

Valutazione: ***(* per chi ha giocato a FF7 in modo più o meno estensivo)

mercoledì, novembre 09, 2005

Flightplan (@imdb)


Panic Room ad alta quota?

Jodie Foster è un ingegnere aeronautico (no, il "una ingegnere" urta troppo la mia sensibilità fonoestetica per poterlo usare), di nome Kyle, ma poco importa visto che non ci si dimentica che sia Jodie Foster neanche per mezzo secondo, che ha vissuto per anni a Berlino (le prime battute del film sono in tedesco, tanto che mi ero già messo a piacchiare chi aveva preso i biglietti pensando di essere finito ad una proiezione doppiata) dove a progettato un aereo che all'occhio somiglia tanto al A380 ma che di nome fa 8747 (giusto per non scontentare nessuno di qua e di là dell'Atlantico).


Jodie ha da pochi giorni perso il marito e stà rientrando negli Stati Uniti per dargli degna sepoltura (la salma fa parte del bagaglio). Con lei viaggia la figlia di sei anni, che visto che viene detto si sa essere sotto shock, anche se all'occhio di colui che nulla sa dei bimbi pare piuttosto normale.


L'aereo è capitanato da Sean Bean (tra le altre cose Boromir in Lord of the Ring, il Cowboy in The Big Empty, Ulisse in Troy, nonché cattivo in una non trascurabile quantità di blockbuster) tra le hostess si ha Erika Christensen (già andata ammale in Trafic e prima della classe che strippa male durante il SAT in The Perfect Score) mentre l'addetto alla sicurezza da post 11 settembre è Peter Sarsgaard (faccia da schiaffi omofoba in Boys don't Cry, faccia da schiaffi yuppie e bangante Denise Richards in Empire, faccia da schiaffi tossica in The Salton Sea e faccia da schiaffi di cui non ricordo il ruolo in Garden State).


Altri passeggeri comprendono famiglie rompipalle, arabi assortiti, all-american che si scagliano contro gli arabi assortiti alla prima occasione ma poi si scusano perché in fondo sono brave persone, e via dicendo.

Jodie si assopisce e quando si sveglia la figlia non c'è più. Si lancia alla ricerca e dapprima viene aiutata dall'equipaggio e ha sostegno e simpatia da parte dei passeggeri. Fin qui nulla che il trailer già non abbia svelato, e fin qui tutto bene, ciò che segue svela il resto della trama, quindi se non l'avete visto e ne avete l'intenzione fate attenzione. Gente avvisata mezza salvata.

Le ricerche procedono ma la bimba non salta fuori e a breve il capitano le fa sapere che da terra gli è stato comunicato che la figlia è in realtà morta assieme al marito e che lei stà vivendo in uno stato di allucinazioni.

La tensione sale e per un certo lasso di tempo si ha il dubbio che Jodie possa effetivamente non starci dentro più di tanto e vedere cose che non esistono. L'aereo è di dimensioni ciclopiche, tre piani e mezzo, con ampi volumi inutilizzati, griglie e pannelli, scalette, e via dicendo, lo stile è quello dell'architettura allo spreco delle basi segrete dei cattivi dei James Bond, in cui nel cunicolo subacqueo da cui dovrebbe uscire il sottomarino automatizzato con i missili atomici per distruggere Washington, Londra, Pechino e Mosca ci si è premurati di installare file di lucine azzurre. Trovare una bimba in un ambiente di questo genere somiglia alla proverbiale ricerca dell'ago nel pagliaio, anche perché Jodie, che con il procedere del film svela doti atletiche e di furtività degne di un navy seal dapprima si lancia in iniziative isteriche ed inutili in modo da ritrovarsi addosso gli occhi e le antipatie di tutti i passeggeri.



Si scopre che il faccia da schiaffi è in realtà un crudele criminale che ha ordito un sofisticato piano, al cui confronto l'assassinio di Kennedy era plain vanilla, per ricattare la compagnia aerea e far cadere la colpa su Jodie. Il piano prevedeva i seguenti passi: uccidere il marito di Jodie, mettere dell'esplosivo nella bara, rapire la bambina per mandare Jodie fuori di testa, aspettare che Jodie senza ragione alcuna apra la bara del marito (sigillata con un codice), recuperare l'esplosivo, piazzarolo, ricattare la compagnia aerea che seduta stante verserà 50 milioni di dollari su di un conto irrintracciabile(?), far atterrare l'aereo in un luogo dimenticato da Dio, far credere a Jodie che in realtà la gente stà scendendo per permettere di svolgere una ricerca più accurata, far ammazzare Jodie dalle teste di cuoio e infine, e giusto per essere più efferati, far saltare in aria aereo e bambina. Ora è evidente che per ordire un piano di questo genere bisogna essere completamente deficenti, ulteriori indizio in questo senso è il fatto che la complice del faccia da schiaffi sia una hostess ipercretina che alla prima difficoltà va in panico e fugge.

Il piano sopra descritto è talmente scemo che Jodie riesce a sventarlo senza particolari intuizioni, i cattivi muoiono o finiscono in prigione, il capitano si scusa per non averle creduto e i passeggeri americani e arabi (nel frattempo diventati amiconi) le danno pacche sulla spalla e si dicono tra di loro cose del genere "hell yeah, she never gave up".

Il film è una produzione hollywoodiana di primo piano, quindi tecnicamente impeccabile, ha un buon cast, e una sceneggiatura che regge per i primi 35 minuti. Ha il pregio di poter essere guardato a cervello semispento, i personaggi sono pochi e non si fatica a distinguere i buonim, i brutti e i cattivi, quindi se non si ha il vizio di cercare la coerenza nelle storie il film va giù benone. Di film simili ce n'è parecchi, così su due piedi mi vengono in mente Passenger 57, Executive Decision, Airforce One e il recente Red Eye... diciamo che il connubio film ambientato su aereo, sceneggiatura debole pare quasi la regole (dei film precedentemente citati ad istinto salverei solo Passenger 57). Probabilmente il rammarico più grande è che fino ad un certo punto il film tiene, si ha il dubbio che la bambina a bordo non ci sia mai stata, ci si chiede dova la storia possa andare a parare, poi il tutto si sgonfia come un soufflé mal fatto, peccato.

Il titolo non ha un significato particolare, tolto quello di essere qualcosa che c'entra con l'aviazione, ne è particolarmente brillante, e in questo è in linea con il resto del film.

valutazione: ***

lunedì, novembre 07, 2005

Michel Vaillant (@imdb)


Torno a tediarvi con una piccola recensione di un film ormai passato in DVD, non nuovo (è del 2003), di cui pochi hanno memoria (di sicuro il mio ospite, l'Imperatore) e che mi permette di gettare fango sullo stato del cinema contemporaneo nel Bel Paese (mi pare giusto in questo Blog).

Ordire una trama

Dal mondo dei fumetti, l'introverso re dell'auto-sciovinismo francese (Michel Vaillant) corre per salvare la vita del padre nella 24h di Le Mans edizione 2002 e ci riesce! La trama è questa e non c'è nulla più che valga la pena di aggiungere.

Se vogliamo dirla con Axel Roses... It's a story of a man, who try to work hard on his own... come tante ce ne sono.

A differenza di molti francesi e ciò non è poco, il Vaillant risulta pure simpatico, senza scalfire la simpatia suscitata da Gérard De Pardieux che parla male di se stesso, dei francesi, del cinema francese e del cinema tout court (uno humor molto inglese, cosa che per un Francese non è poco).

Every rose has its thorn... till you drop da bomb!

Dirò subito che questo film non è un capolavoro, ma non merita nemmeno l'ultimo ripiano dello scaffale d'angolo dove tengo il Beowulf (che a forza ho voluto comperare, anche se l'Imperatore me ne parlò male), Battlefield Earth ed altre cose di cui se troverò il coraggio farò outing. Preciso che si tratta di un ennesimo film bastardo di Luc Bessson, che non si è occupato della regia, ma sicuramente qualcosa ha scritto e qualche doblone ha speso.

Vi chiedo perché il Besson, che ha giurato di fermarsi a dieci film come regista (ma che a ben vedere ha le mani in pasta in almeno un altro centinaio) s'è impeganto come scenaggiatore in questa produzione minore alla Taxi? Di primo acchito potrei rispondervi come fece Caz de Kan (il fidanzato di Paola Banale) alla domanda sul perché bevesse Jägermeister ("Io non so perché bevo Jägermeister!"), ma impegnandosi più a fondo (mai accettare la prima offerta) la vera ragione emerge lampante: uno beve l'idraulico liquido e dice che è buono, perché gli hanno regalato un sogno (la notorietà) e dato tanti dobloni che nemmeno Gennaro D'Auria e Cicciput sanno come. Scusate la distrazione, per tornare a noi, la disarmante risposta è che questo film permette di fare cassa, modesta, ma sempre cassa ed inoltre ha il pregio di dare una possibilità ad alcuni figli di un Dio minore di sedere al desco dei grandi almeno per una volta. È lasciatemi dire che è sicuramente una pratica più degna dell'andar ospite da Maurizio Costanzo o sull'Isola dei Famosi. Più succintamente il cinema francese può permettersi degli essais di grande tecnica (alla "volevamo vedere se potevano girare delle scene mozzafiato alla 24h di Le Mans e l'abbiamo fatto!"), anche se la trama è ben lungi dal frangigonadismo dei film finto-intellettuali.

Au contrair du cinéma, il cinema italiano queste produzioni non se le sogna nemmeno.
Tutti a dire che i cinema italiani sono affollati da produzioni di poco valore (perché i Vanzina che fanno) provenienti dall'estero, con pochi contenuti e molti effetti speciali. Nell'italico cinema, non ci sono i soldi ed i mezzi (e forse neanche le persone) in grado di usare al meglio le tecniche del cinema contemporaneo: un film non è solo il diaporama alla Nanni Moretti o non è solo Stefano Accorsi che rifà se stesso all'infinito nel mezzo di un'ennesima crisi di mezz'età e a cui francamente invidio solo di non aver ceduto al lato oscuro della forza dopo aver pomiciato con Martina Stella ed essere quindi finito in casa di un travestito a tirar bamba.

Il cinema è anche tecnica, potenza dell'immagine, suono, musica, colore! Insomma se la gente va al cinema al posto di starsene a casina a godersi un DVD, qualche differenza ci dovrà pur essere.

A gettar ulteriore benzina sul fuoco, ricordo che l'Italia ha inviato agli Oscar, come candidato per il premio di miglior film straniero, un film girato in molte lingue tranne che in Italiano: per certo un bel film, ma gli americani che sono tutto ed il contrario di tutto, ma che certamente mostrano un po' più di pragmatismo di noi abitanti della vecchia Europa, non ci sono cascati e l'hanno rigettato. Non hanno forse capito che l'effetto speciale era proprio girare un film italiano non in lingua italiana?

Ecco il Vaillant è l'archetipo di questi film di mezzo che in Italia non verranno mai realizzati: trama semplice, scene d'azione guardabili e fotografia da paura.

Summa summarum

Mi fermo qui e vi consiglio il Vaillant per le serate in cui non avete voglia di pensare troppo e volete vedere delle discrete scene d'azione e sentire il rombo dei motori. Se avete visto Driven, mi dispiace per voi, e consolatevi con il Vaillant.

Su scala imperiale: ***!

Postproduzione


Vi dico anche:

  • Bella fotografia anche se i blu ed i rossi sono un po' troppo saturi
  • Alcune scene girate nel garage, nei box e nella galleria del vento ricordano condizioni di luce soffusa e polverosa, che hanno fatto impazzire il buon Ridley Scott al tempo di Blade Runner e che ancora oggi sono difficili da girare
  • Il mio Tag McLare ha sofferto alcuni passaggi forse dovuti alla saturazione eccessiva dei colori e forse ad un trasferimento non proprio di altissima qualità (doppi contorni)
  • A volte il voto su imdb è troppo crudele: qualcuno è riuscito a dare a Driven 4,4 (è pure vero che Verona Feldbusch porti almeno 4 punti alla causa) ed al Vaillant solo 4,9. A mio avviso bisogna almeno aggiungere un punto al Vaillant
  • Vi ho volutamente messo un sacco di hyperlink, affinché possiate andare a spulciare un po' nelle vite di alcuni personaggi. Guardate per esempio cosa ha scritto Maurizio Costanzo
  • Mi rendo conto di aver un po' esagerato, ma il Blog dell'Imperatore è anche un luogo in cui l'Ego possa emergere in tutta la sua prepotenza ed arroganza!
  • Versione 1.01

venerdì, novembre 04, 2005

Wallace & Gromit and the curse of the Were-Rabbit (@imdb)

Come il chilometrico e diascalico titolo suggerisce questo film racconta delle vicende dell'accoppiata Wallace e Gromit alle prese con il coniglio mannaro.

Wallace, umano di grande talento inventivo ma carente in quanto a senso pratico, e Gromit, cane che da dietro le quinte fa funzionare le cose, sono un'unità di emergenza che salva gli ortaggi della città dalle voraci fauci dei moltissimi coniglietti presenti in zona. Nella città è diffusa infatti una preoccupante forma di feticismo che riguarda verdure ed ortaggi, e che culmina ogni anno con il concorso della carota d'oro organizzata dalla nobil donna Lady Campanula Tottington (Totti per gli amici).


Quando si diffonde la voce di della presenza di un gigantesco coniglio capace di mangiare una zucca con un morso il panico dilaga per le strade, Wallace & Gromit da un lato e il crudele e sanguinario Victor Quartermaine, viscido pretendente alla mano di Lady Tottington, dall'altro cerceranno di fermarlo. In questo pericoloso gioco a tre chi sopravviverà allo scontro finale?


Il film è un'animazione in stop motion con i personaggi realizzati in plastilina, alla Chicken Run per intenderci, ed è il più recente capitolo di una lunga serie di avventure con protagonisti Wallace e Gromit. La realizzazione è dal punto di vista tecnico impeccabile, purtroppo a livello di contenuti non ci siamo.

W&GatCotWR è un film noioso, i personaggi, cominciando con i protagonisti, sono solo raramente simpatici, poche, pochissime le battute, inseguimenti che si protraggono fino alla noia, poco più di un Tom&Jerry di un'ora e mezza insomma... sarà che i vari Shrek, Monster, Nemo e i film di Miyazaki ci hanno abituati troppo bene ed ora nei confronti dell'animazione si hanno troppo pretese a livello di contenuti, ma sia quel che sia, di questo film non mi sento di parlar bene più di tanto.


Va detto che la platea scoppiava in risate abbastanza spesso, quindi forse il problema è mio, non del film. Mi sento però di aggiungere che il pubblico in sala era velatamente sull'intelletualoide/alternativeggiante, e in piena teoria del complotto mi permetto di sospettare che si trattasse di neo luddisti dell'era dell'informazione, odianti hollywood e la computer graphic e più che pronti ad apprezzare questo W&GatCotWR anche solo perché fatto in Inghilterra e con la plastilina.

Da parte mia sono convinto che la computer graphic ha salvato l'animazione, Galaxy 999 era meglio di Titti e Silvestro (e devo aggiungere che all'epoca, ed ero piccolo, quelli che cercavano di convincermi del contrario adducendo avantutto il fatto che i giapponesi facevano i cartoni animati col computer mi parevano dei poverini, in primis che se ne frega di come sono realizzati, secondariamente non riesci a farmi credere che è interessante vedere un gatto che cerca all'infinito di catturare un canarino senza riuscirci) e che con la plastilina si possono fare grandissime cose (questo film in fondo ne è la riprova). Altresì sono certo che quando non si ha niente da dire si avrebbe un'ottima occasione per tacere. Visto che questo, che per gli sceneggiatori dovrebbe essere un mantra, vale anche per me, termino qui il mio commento a questa produzione non priva di qualche spunto ma lungi dall'essere davvero convincente.

valutazione: ***

mercoledì, novembre 02, 2005

Crash (@imdb)

Crash è un film corale, cioè un film con dentro un sacco di attori che all’inizio sembrano centrare poco uno con l’altro, il classico film alla visione del quale lo spettatore solitamente esclama: “ah, guarda, c’è anche lui! Bravo lui! Ha già fatto quell’altro film… com’era già????”, oppure: “Oh no, c’è pure questo, noooo! Fa schifo!”, pieno di situazioni ed episodi di un’apparente normalissima esistenza metropolitana. Si svolge infatti a Los Angeles, una città “non-città”, nel senso che non ha un centro definito sullo stile europeo, una città dispersiva, come lo sono i suoi milioni di abitanti di tutti i colori e tutte le razze, una grande insalatiera riempita di ogni sorta di popoli e personaggi. L’interazione di questi personaggi, o meglio solo un campione di essi, è la trama del film. Aggiungiamoci un pizzico di ultra-attuale intolleranza e “diffidenza dell’estraneo” – una volta lo si sarebbe forse definito “odio razziale”, ma oggi le varie sfumature rendono il discorso altamente complicato – e abbiamo il quadro che il regista (e sceneggiatore) Paul Haggis dipinge della città degli Angeli (Paul Haggis ha tra l’altro scritto la sceneggiatura di Million Dollar Baby, che non è poco, e quella del prossimo film del Clint).

A rendere il film interessante e senz’altro bello da vedere un folto gruppetto di attori efficaci, poco star e molto professionisti, come ci si augura spesso, ma poche volte si viene accontentati. Avete presente Traffic (S.Soderbergh, 2000)? Ecco, lo stesso tipo di film, non sul tema della droga, bensì sulla difficile comprensione e interazione tra l’afroamericano, il cinese, l’ispanico, il caucasico, l’iraniano e l’anglosassone, tra il ladruncolo, il procuratore politicante, il poliziotto, il regista, il detective e la dottoressa, tra il povero e il ricco, tra il malato e l’assicurazione, tra la serratura e la porta, tra la strada malfamata e il quartiere tranquillo, insomma, volendo semplificare: il male del momento, almeno nella Los Angeles di Haggis. Così ritroviamo tutta una serie di attori bravi e meno bravi, famosi e meno famosi che interpretano l’esistenza di normali cittadini intenti a fare il proprio lavoro, ma con evidente tristezza e incazzatura di fondo.

I vari personaggi di questo circo urbano sono, in ordine sparso:

  • classico detective afroamericano con la testa sulle spalle, che sembra non faccia nulla, ma alla fin fine il suo dovere lo compie in piena regola, tipicamente proveniente dal ghetto – la madre è drogata e il fratellino è teppistello-ladruncolo – ma estraniatosi da esso. Se la fa con la collega, messicana, anche se lei apprezza poco quando rispondendo al telefono lui dice a sua madre di non rompere perché si sta scopando una bianca. Interpretato dal bravissimo Don Cheadle in gran forma, reduce dal successo di Hotel Rwanda e ormai lanciato – e ne sono ben felice – verso una gran carriera cinematografica. Oltre a doversi subire la merda quotidiana della sua città, scoprirà con disgusto come gira dalle parti alte, quando viene convinto a contar palle per semplificare il lavoro al procuratore. In più, anche se si occupa della madre come meglio riesce, questa non se ne accorge e anzi lo incolpa per la brutta fine del fratellino ladro. È l’anima del film, il personaggio chiave, anche se non per forza ce ne sarà uno solo.


  • altrettanto super-classico Matt Dillon, in gran spolvero con quell’aria da moderno Atlante (cioè: “io tengo il peso del mondo sul gobbo, e ne sono fiero, anche se non è per niente facile”) agente stradale veterano e razzista del LAPD, naturalmente non sulla stessa lunghezza d’onda del giovane collega Ryan Phillippe (di cui dirò poi) perché sa già come gira il mondo vero. Si ritrova con il padre sveglio la notte per gravi problemi di prostata e la prospettiva di adeguate cure mediche e sostegno andata in fumo, perché si è messo a fare la parte del padrone della piantagione di cotone della Georgia con la nera sbagliata, cioè l’irremovibile impiegata dell’assicurazione (attrice già vista altre volte). Anche se usa mezzi poco ortodossi e approfitta della divisa che indossa, risulterà essere l’eroico poliziotto salva-vite e guarda caso non una vita qualsiasi.


  • la coppia Sandra Bullock-Brendan Fraser, lui stiloso procuratore pubblico della città, bianco, ricco e preoccupato soprattutto della sua rielezione più che del crimine dilagante, e lei sua moglie che va in paranoia psicotica contro tutti coloro che non possono vantare una linea genealogica diretta con la vecchia Inghilterra, perché due ladruncoli neri hanno appena rubato loro con nonchalance l’auto (jeeppone parecchio costoso, dev’essere il pendant americano del Cayenne) in pieno centro. Addirittura fa una scena di puro delirio col marito, perché il tizio che sta cambiando le serrature della casa (sempre a causa della psicosi del momento) è ispanicheggiante, è rasato, porta pantaloni ampi e ha un tatuaggio, e arriva anche a prendersela con la donna di casa, pure ella d’origine centro o sudamericana. Da antologia i problemi politico-razziali che assillano il Brendan-procuratore: vuole dare una medaglia al valore a un pompiere per ingraziarsi il popolino (vedi dialogo sotto), ma questi è di origine irakena e si chiama proprio Saddam, e nel contempo si ritrova con un poliziotto nero ucciso da un collega bianco, che a torto o a ragione sarà sacrificato sull’altare della propiziazione dell’elettorato afroamericano.

    Rick (il Brendan): Why do these guys have to be black? No matter how we spin this thing, I'm either gonna lose the black vote or I'm gonna lose the law and order vote!
    Karen (sua assistente afroam.): You know, I think you're worrying too much. You have a lot of support in the black community.
    Rick: All right. if we can't duck this thing, we're gonna have to neutralize it. What we need is a picture of me pinning a medal on a black man. The firefighter - the one that saved the camp or something - Northridge... what's his name?
    Bruce (altro assistente): He's Iraqi.
    Rick: He's Iraqi? Well, he looks black.
    Bruce: He's dark-skinned, sir, but he's Iraqi. His name's Saddam Khahum.
    Rick: Saddam? His-His name's Saddam? That's real good, Bruce. I'm gonna pin a medal on an Iraqi named Saddam.

  • la famiglia iraniana, padre, madre e figlia, che pur essendo a tutti gli effetti americana non riesce a sentirsi integrata al cento per cento, soprattutto il padre. La figlia, invece è sveglia, dottoressa affermata, molto poco mediorientale e molto made in USA nei modi. Il padre, commerciante con piccolo negozietto tipico stile “mercato di Damasco”, vuole assolutamente comprarsi una pistola per sentirsi più al sicuro, ma nel più classico dei casi, il rivenditore americano lo prende per terrorista islamico che gli farebbe saltare le torri gemelle un’altra volta. Alla fine ci pensa la figlia a risolvere, e il colore dei verdi dollaroni piace molto di più al rivenditore che la retorica antiterroristico-razziale. Comprerà delle cartucce a caso, okkio al dettaglio importante! L’iraniano, pur essendo fiero di avere almeno la figlia in gamba, non è per niente tranquillo con se stesso e col mondo, e quando arriva lo stesso riparatore di serrature che ha fatto andare fuori di nervi la Bullock, lo insulta pesantemente perché non gli rimette a posto la porta, che però non chiude bene di suo, senza problemi alla serratura. Il poro ispanico se ne va senza ricevere il becco di un quattrino, carico di insulti razziali del nostro amico persiano, che vede il diavolo in ogni angolo, e la porta se ne resta rotta! Porta rotta, furto assicurato, assicurazione non paga! Il persiano ci resta di merda e in un raptus di follia vorrà vendicarsi con chi ritiene responsabile.

  • arriviamo al già citato fabbro ispanico del servizio serrature 24h/24. Il soci, che sta subito simpa a tutti, si spacca di lavoro che evidentemente non lo soddisfa tanto, ma lo fa per la sua piccola figlia – cui in uno slancio di ottimo savoir-faire genitoresco donerà l’invisibile mantello della protezione contro ogni cosa per farla uscire da sotto il letto – di modo che possa vivere in un bel quartiere più tranquillo fuori dal ghetto. Si beccherà insulti da tutti e rischierà forte di fare una pessima fine insieme alla famiglia.


  • coppia di afroamericani affermata: lui regista televisivo di successo, sta tornando (anche lui con il mega jeppone di cui sopra) da una serata di gala alla quale ha ricevuto un premio. La moglie, Thandie Newton (la bella di Mission Impossible II), contenta del suo ometto, gli sta facendo il servizio in auto. Sfortuna vuole che i due poliziotti Dillon-Phillippe che stanno cercando l’auto rubata del procuratore, si accorgono delle attenzioni particolari della nostra, e decidono, o meglio, il Dillon decide, di romper loro le uova nel paniere. Solita scenetta da sceriffi americani che fanno scendere i due con le mani bene in vista, e il Dillon si mette a perquisire in modo tutt’altro che disinteressato la tizia in vestito da sera, mentre umilia pure il marito facendogli fare la figura dell’impotente davanti alle angherie del più forte. La cosa chiaramente non va giù alla moglie, che una volta a casa tira il pacco al marito che non ha saputo difenderla. Il tizio è dispiaciuto, ma sa che ha agito nel modo più ragionevole. Però, il giorno dopo, quando si becca in faccia una specie di ultimatum dal protagonista bianco del telefilm che sta girando, si rende conto di quanto è troppo compiacente con i bianchi e di quanto si fa mettere i piedi in faccia da un sistema, del quale ormai si sentiva praticamente far parte. Decide di reagire, in maniera discutibile, e riuscirà infine, non senza rischio e con l’aiuto del polotto Ryan Phillippe a risolvere la situazione e a placare la sua coscienza.


  • i due ladruncoli d’auto afroamericani usciti direttamente dal ghetto. Bellissimi personaggi questi due, rappresentano la parte spiritosa del film. In classico stile rappeggiante west-coast-addicted uno di loro spara sentenze su ogni cosa che vede, ogni situazione, ogni persona che incrociano. Ogni più piccola cosa è un atto di razzismo dei bianchi nei confronti dei neri, un esempio su tutti: secondo lui i bus hanno i vetri grandi e grossi così si può vedere i pori brotzi che sono costretti a prenderli e che per la maggior parte non sono bianchi. Il suo amico è più tranquillo e si limita a cercare di confutare ogni argomento dell’altro, con poco successo, perché quello, per farla breve, ne ha sempre una pronta. Insomma sti due, tra uno sclero e l’altro si mettono a rubare auto, ma non quando sono vuote, parcheggiate in culo al mondo o roba del genere. No, in pieno centro, quando la gente sta per salirci e con la pistola puntata. Prima fregano il barcone del procuratore, provocando una crisi epocale a sua moglie, poi, scappando, investono un cinese che stava chiudendo il suo furgone. Visto che questi rimane incastrato sotto l’auto in puro stile pulp, lo devono salvare e lo abbandonano davanti a un ospedale. Il giorno dopo, se la prendono con il regista televisivo di cui sopra, ma costui stavolta, nel suo tentativo di vendicarsi del mondo, non ci sta a farsi mettere i piedi in faccia ancora una volta e reagisce pesantemente, ferendone uno e portandosi dietro in una pazza corsa in auto il secondo. Va a finire che interviene la pola, che il regista resiste, fa prova di forza con gli sbirri e se la cava grazie all’intervento di Ryan Phillippe che lo riconosce e vuole riparare al torto che gli ha fatto il collega la sera prima. Il ladro decide di rimanere schiscio e si farà mollare da qualche parte dal regista che ovviamente non gli risparmia la morale, roba del tipo: “è colpa dei neri come voi se anche noi neri in ordine siamo considerati merde”. Caso vuole che si ritrova davanti al furgone del cinese che ha tirato sotto la sera prima, e naturalmente glielo gratta. Lo porta al ricettatore e con grande sorpresa di tutti ci si accorge che è pieno stipato di clandestini orientali, poi meglio definiti dal ricettatore, che fa prova di ottima conoscenza nel campo, in tailandesi. Il ladro nero stavolta rinsavisce e al posto che farsi un mega gruzzolo vendendo i thai, li porta a little china e li molla in strada, liberi.


  • cinese trafficante in clandestini e sua donna/moglie molto apprensiva. Del cinese abbiamo già detto, il suo ruolo si limita a essere mezzo spiaccicato sotto un’auto e cavarsela per un soffio. Della moglie o tipa che sia facciamo conoscenza subito all’inizio del film, ma ci si fa poco caso. In questo frangente se la sta prendendo con la partner messicana del detective nero di cui al primo punto. Per via di un incidente tra di lei e i due sbirri, e per via che c’ha una fretta matta, sta china se la prende pesantemente sia con la stradale, sia con la messicana, insultandola senza sosta. Forse si sente più americana di lei perché i suoi nonni sono arrivati in California in un container di una nave mercantile e non hanno attraversato a piedi il confine tagliando la ramina. Alla fine si capisce perché aveva fretta, doveva raggiungere il suo uomo all’ospedale, tutta agitata si mette a insultare anche le infermiere, anche qui con argomenti linguistico-razziali. Fine della storia: il cinese che è bello pesto, ma vivo e vegeto, e soprattutto c’è ancora con la testa, dice alla tipa di sbrigarsi ad incassare il contratto per la vendita dei clandesta, giustamente prima che qualcuno si accorga che in realtà non sono più in mano sua.


  • infine, un ultimo personaggio tra i più principali, l’agente stradale del LAPD Ryan Phillippe (nella vita reale marito di Reese Witherspoon). Come detto questi è dapprima di pattuglia con il veterano Dillon, ma poi, da buon pivello, non gli aggradano i suoi metodi spicci e chiede di avere un altro partner. Il capo, un afroamericano, in sostanza gli fa capire che la motivazione che il Dillon è troppo razzista non funzia, e non sarà certo lui a cambiare le cose per una tale motivazione, visto che gli spuzza il cadreghino che come nero si è guadagnato sudando parecchio. La soluzione che propone al poro agente è di farsi passare per uno che ha la scorreggite patologica cronica e che si vergogna a stare con altri di pattuglia. Al Ryan sta soluzione non va giù manco per le palle, ma si rende conto che è l’unica per difendere il suo idealismo, così ingoia il boccone amaro, si becca la tirata di capelli del Dillon che gli fa capire che non c’è posto per l’idealismo dopo anni e anni di servizio, e se ne va in giro da solo. All’inizio gli va bene, riesce pure a rifarsi della sera prima salvando il regista come minimo da un arresto. Peccato che più tardi, tornando a casa, carica il secondo ladruncolo d’auto che era rimasto a piedi e faceva stop. Tutto ad un tratto capirà cosa intendeva dire il buon vecchio Matt Dillon.

I vari episodi e situazioni, come in parte già raccontato sopra, si intrecciano. I tanti personaggi diversi interagiscono. Ad alcuni va bene, e la vita continua, ad altri va peggio, ma la vita continua lo stesso. Non è una storia che inizia e finisce, è un film che racconta dei momenti, le persone si scontrano, fanno “crash” quando vengono a contatto, come dice il detective interpretato dal superlativo Don Cheadle, la morale, se vogliamo, del film: “It's the sense of touch. In any real city, you walk, you know? You brush past people, people bump into you. In L.A., nobody touches you. We're always behind this metal and glass. I think we miss that touch so much, that we crash into each other, just so we can feel something.

Succedono altre cose oltre a quelle già descritte, ma non è il caso di elencarle tutte per non togliere la sorpresa e il piacere a chi non l’ha ancora visto. Ogni dettaglio è curato, quasi niente è fatto o detto a caso, nemmeno la storiella del mantello invisibile proteggi-da-tutto della figlia del fabbro ispanico. Stilisticamente non c’è niente da dire, ottima sceneggiatura, ottimi attori, ottimo regista, resta da vedere se sottoscrivere il messaggio che vuole far passare. È il quadro di una società malata, intollerante, che non sa più come comportarsi con chi sta intorno, chi vive la vita nella stessa, grande, odierna città: una Los Angeles sulla buona strada per diventare nel prossimo futuro la megalopoli multietnica immaginata da Philip K. Dick e Ridley Scott in Blade Runner.

Andate a vederlo, vale sicuramente la pena!

Imperator rating skala: ****