martedì, agosto 29, 2006

Il demonio veste Prada (@imdb)


Divertente come un sabato pomeriggio di shopping durante i saldi.

Meryl Streep è Miranda, impietosa clone di Crudelia de Mon ed autorità suprema in importantissima rivista di moda che non viene chiamata Vogue, immagino, per questioni di diritti e per il fatto che Vogue non voglia essere dipinta come rivista diretta da un'altezzosa egomaniaca che se il narcisismo uccidesse starebbe a contar radici da un gran pezzo.


Anne Hathaway è Andy, dolce ragazza della porta accanto (+ tette grandi) tutta acqua e sapone e sane ambizioni. Per cominciare a coronare il suo sogno di diventare giornalista, si ritrova alle di dipendenze della dispotica Miranda in un luogo in cui le scarpe sono tutto e le segretarie sembrano top model (in effetti una di loro è intepretata dalla morosa a mesi alterni del Di Caprio Giselle Bündchen).


Sul principio Andy cerca di fare resistenza passiva alla futilità dell'ambiente in cui si muove, in fondo lei ha più alti valori e principi. Poi, dopo un paio di settimane al massimo, si trasforma in modo repentino una fashion addicted in fase terminale, tanto la roba gliela danno a gratis. In un ambiente in cui una cocainomane isterica che ti infila una forchetta nel dorso della mano viene considerata gentile perchè almeno non t'ha cavato un occhio, i modi civili di Andy cominciano, col tempo, a venir apprezzati e lei si trova a muovere i primi passi nella giusta direzione.


Purtroppo il prezzo da pagare è l'alienazione dai suoi vecchi amici, meno di una manciata invero, ed in particolare con il suo ragazzo dal look grunge e dal tenebroso fascino del cagacazzo convinto di saperne perennemente una più di Bertoldo. In piena filosofia della y generation costoro tollerano male chi spende il tempo a fare il workaholismo invece di consumarsi in infiniti pomeriggi a discutere di feng shui e celestini.

Inutile dire che ora della fine del film tutto volgerà più o meno al meglio e tutti saranno più buoni e felici.

Questo film è un po' deboluccio. Meryl Streep è, come al solito, convincente, ma il suo è un ruolo solo di supporto e il film si trova a ruotare attorno alla figura di Andy che ha lo spessore psicologico di un cecio e che sembra uscito da uno di quei film fatti per i bambini nella convinzione che i bambini siano tutti sempre deficienti.


La camera indugia spesso e volentieri sui giganteschi occhioni scuri della Hathaway, che, se necessario, si colmano di lacrime, ed è superficiale su quello che sono vestiti ed accessori. Cose, quest'ultimi, che in realtà dovrebbero avere un ruolo assai più importante visto che il film vorrebbe raccontare di come una persona che se ne riteneva immune scivoli nel baratro della fashion addiction.

Valutazione: ***

lunedì, agosto 28, 2006

Thank you for smoking (@imdb)


Thank you for smoking è un film divertente e che va giù in un sol boccone.

In sostanza un one man show ruotante attorno alla figura di Nick Naylor (Aaron Eckhart, già buono generico in film di basso calibro come The Core, o cattivo con stile in film di calibro giusto un pelo superiori come The Paycheck), di professione portavoce della lobby del tabacco, il film racconta di una manciata di giorni di quella che dovrebbe essere le quotidianità di Nick.

L'industria del tabacco traballa sull'orlo della crisi di nervi, il salutismo imperversa, azioni legali di massa corrono per il paese, e nell'immaginario collettivo il fumo non è più parte integrante dell'allure della gente che piace. Ed ecco dunque Nick barcamenarsi tra talk show con ragazzini malati di cancro, agenti di Hollywood in crisi di identità (un piuttosto brillante Rob Lowe, tanto d'una volta non bistrattato da Mike Meyers) tramite i quali spera di ripiazzare la sigaretta in bocca non solo ai cattivi dei film, o a rendere visita al ormai morente cowboy della Marlboro prima version (il cowboy narrante de Il grande Lebowsky Sam Elliott). Nel contempo si trova a gestire un rapporto con suo figlio Joey (Cameron Bright, già inquietante bimbo di Godsend) in sé più che buono ma che deve fronteggiare tanto l'acidità della madre/ex-moglie quanto il fatto che Joey cominci a porsi delle sincere domande su quanto sia giusto o sbagliato.

È facile immaginare che ad essere il portavoce dell'industria del tabacco si rischierebbe di venirne fuori maluccio da un concorso di popolarità. Ed in effetti la cerchia di amici di Nick si riduce ad un paio di altre persone che condividono con lui il fatto di essere il volto di industrie non automaticamente suscitanti le simpatie del grande pubblico: la rappresentante della lobby dei produttori d'alcool (Maria Bello, già propietaria del Coyote Ugly) e quello della lobby delle armi.

Nemesi di Nick, o aspirante tale, è il senatore Ortolan Finistirre (William H. Macy, ex bambino prodigio quizzista di Magnolia) il cui ridicolo nome ben si sposa con l'efficacia del suo operato, e che nell'intervallo di tempo raccontato dal film mira all'istituzione di una legge che obblighi che sui pacchetti di sigarette venga stampato, a ricordare di come il fumo uccida, un orripilantemente disegnato insieme di teschio e croce di tibie.

Nel tutto sommato quieto vivere dei personaggi sin ora descritti viene ad inserirsi l'aspirante giornalista Heather Holloway (la già scassapalle dagli occhioni tristi di Dawson Creek nonché neomamma dei figli virtuali di Tom Cruise, Katie Holmes) che dietro a sorrisoni smaglianti ed ammalianti nasconde intenti ben più crudeli.

Ruolo breve ma intenso è quello di Robert Duvall, nei panni di "The Capitan", gran patriarca dell'industria del tabacco, per il quale Nick è con una buona approssimazione il figlio che questi non ha mai avuto.


Il film, scritto e diretto da Jason Reitman, figlio di Ivan "Ghostbusters" Reitman, è scritto bene: brillante nei dialoghi ed evita elegantemente la trappola del buonismo moral/sentimentalista. Tutti i personaggi, bambini non esclusi, hanno al fondo una discreta base di cinismo e humor, ciò che permette loro di fare quello che fanno senza troppe remore ma anche senza particolari crudeltà d'intento. Il cast è appropriato e di ottima levatura, e questo detto gli ingredienti per un film almeno discreto ci sono tutti.
Messaggi profondi io non ne ho saputi leggere, il tutto è però intelligentemente divertente e ben confezionato, e Aaron Eckhart supera in modo convincente l'esame da protagonista che riesce trascinare per tre qurti del tempo la baracca tutto da solo.

Valutazione: ****

lunedì, giugno 12, 2006

Inside Man (@imdb)


Recensione tardiva per questo pregievole giallo firmato da sua maestà Spike Lee in persona.

Clive Owen è perfido rapinatore di banca con IQ da 230 e sfera magica per prevedere il futuro, Denzel Washington è poliziotto integro e un po' idealista ma cosciente che al volger del giorno in sera na ha salvati più la realpolitik della penicillina, Jodie Foster è perfida faccendiera che di tutti conosce gli altarini e che su questo basa una lucrativa carriera di raddrizzatrice di cose storte per gente che ha e che sa.

Delineare una trama senza spoilerare è in questo caso un difficile esercizio d'equilibrismo, quindi è più salubre limitarsi ad enumerare qualche elemento che l'osservatore più attento avrebbe già potuto evincere da un'analisi della locandina.
Clive Owen guida un gruppo di rapinatori ad una presa di ostaggi all'interno di una banca di Manhattan. Denzel Washington viene incaricato di gestire la situazione e di mediare con i criminali. Tra i due si sviluppa una sfida all'ultima arguzia in cui entrambi sono forti della certezza di saperla più lunga dell'altro, mentre lo spettatore che sa che uno dei due si sbaglia viene lasciato in un dubbio che perdurerà fino alla fine del film.
Il gran patron della banca ha un segreto che vuole resti tale e le cui prove invece di aver gia da tempo preso la via del macero giacciono nelle segrete della banca. Convinto che la miglior via per far restare il passato tale sia andarsene in giro a dar adito a sospetti, incarica Jodie Foster di andare a ficcare il naso. Avesse fatto l'uomo sandwich con su scritto "sono losco, ma davvero losco" il risultato non sarebbe stato altrettanto efficace.

Sulla base del gioco tra i tre protagonisti il film si svolge intricato e ricco di colpi di scena, di quei film che all'apparire del "nessun animale è stato maltrattato..." sul finire dei titoli di coda hai appena cominciato a raccapezzarti sul com'era in realtà la vicenda raccontata.



Lo Spike non nega lo spazio per delle brevi apparizioni di una serie di personaggi secondari ma indubbiamente colorati e che rendono più vivo lo sfondo in cui la storia si svolge, che, e non poteva essere altrimenti, è la Nuova York post 9/11 e post Giulianesca.

Un film brillante ed intelligente a volerla dire breve.

Valutazione: ****

giovedì, maggio 18, 2006

The DaVinci Code (@imdb)


1 1 2 6 24 120 720
e' una serie numerica che Antoine Arbogast comincio' ad usare in modo estensivo nelle sue ricerche un paio di secoli fa. In verita' Arbogast e' ignoto a chiunque non sia un junkie del wiki o sia capitato per sbaglio sul suo nome in qualche libro di matematica. La sua serie e' conosciuta piu' banalmente come fattoriale e spesso abbreviata con un semplice punto esclamativo.
Potrei proseguire ora per un paio di pagine ad elogiare tutte le qualita' di questa utile serie ed elucubrare estensivamente sul suo rapporto con la natura, con gli astri e con la distanza tra la terra e il cielo. La verita' e' che il fattoriale non se lo incula nessuno, cosa curiosamente non vera per un'altrettanto poco particolare serie numerica scoperta un mezzo millenio prima da un italiano figlio de il Bonaccione.

Gli stessi meccanismi socio-psicologici che rendono il sopraccitato wiki uno strumento informatico propenso alla dipendenza, fecero leggere a milioni di persone qualche anno fa un libro di discutibile interesse che ci ha provvisto in questi giorni di un film che merita d'esser visto per rendersi conto che l'entropia non e' una leggenda. Oggidi' l'uomo con la frusta e il cappello non e' piu' sufficiente a creare un film d'azione che sappia intrattenere il publico.
Il ruolo del fallace anti-eroe che ha accompagnato i protagonisti di film e libri negli ultimi 20 anni viene soppiantato dal piu' classico eroe senza macchia e senza paura.
Il protagonista odierno deve essere intelligente, acuto, erudito e soprattutto capace di spiegare in termini accessibili al publico la genialita' delle sue scoperte (we are but humble pirates...). Enter l'homo scholar che ritraccia i misteri di quando Gesu' facea le cose zozze con la Maddalena in un interminabile quanto improbabile caccia al tesoro.

Appoggiandosi sulla forza di due convinzioni:
- il publico e' ignorante
- il publico adora immedesimarsi in qualcuno che ignorante non e'
Ron Howard (Cinderella Man, A Beautiful Mind, The Grinch) ci propina 2h30 di film in un susseguirsi di enigmi e spostamenti.
Il film potrebbe durarne una in meno o dieci in piu', vista la sua struttura episodica. In ogni episodio i nostri eroi vanno in un luogo necessariamente conosciuto o per lo meno gia' sentito dal publico americano (cosa che a causa del primo assioma riduce il ventaglio di luoghi possibili a Parigi, Londra e la Banca di Zurigo), si trovano di fronte ad un complesso enigma, lo risolvono e partono per la prossima destinazione. Prima che possano partire, il cattivo arriva ed i nostri eroi sono costretti a darsela a gambe levate.

Apparentemente il miglior menu per il cattivo perfetto e' prendere darth maul, metterlo in candeggina e dargli un pendente per l'autolesionismo. Da quando Mel ha messo in croce il messia, le ferite sanguinanti sono facilmente associabili alla religione e aiutano il publico a capire che il cattivo in verita' e' anche un po' fuori di testa.

Aggiungete un poliziotto che sembra buono, ma poi sembra cattivo, ma poi sembra buono, per poter includere qualche scena d'inseguimento (la processione di monaci con i forconi sarebbe forse stata un po' anacronistica) ed avete tutti gli elementi necessari per un film che si guarda in verita' abbastanza volentieri. Mettete 5 minuti di grande tensione orchestrale per la sequenza finale ed avrete un publico che uscira' in contemplativo silenzio dalla sala prima di rendersi conto che in verita' non e' successo un granche'.

L'unica vera pecca di questo film e' che cerca per 2h30 di essere serio, senza avere uno straccio della maestosita' del Nome della Rosa e poco piu' di una spolverata dell'umorismo di Indiana Jones.
Tom Hanks e Audrey Tautou riescono a non far precipitare i gia' poco credibili personaggi principali e un Jean Reno che per una volta non brilla in modo particolare gioca il ruolo dell'uomo della polizia un po voltagabbana. Una nota di merito a Paul Bettany (l'amico immaginario di John Nash in a Beautiful Mind) che riesce a rendere il cattivo incappucciato l'unico personaggio veramente interessante del film.

E se non avete letto il libro, la trama puo' quasi risultare interessante.

Valutazione: ***

sabato, maggio 06, 2006

Get rich or die Tryin' (@imdb)


Curtis Jackson, anche conosciuto 50 Cents, protegé di Marshal Mathers IV, anche conosciuto come Slim Shady, anche conosciuto come Eminem, si dedica alla settima arte, del come si parlera nelle righe a seguire.

Il suo mentore si era prodotto nel potenzialmente autobiografico 8 miles, con risultati più che discreti. Dico potenzialmente autobiografico in quanto il film era in buona sostanza compatibile con l'immagine che Eminem dava di sé nelle sue clip. Il fifty cerca di ripetere l'operazione ma ahimé il voler essere coerente con la sua videografia lo costringe ad una performance cinematografica sensibilmente inferiore a quella del suo pigmalione.

Ovvero Get Rich or Die Tryin' è una collezione dei luoghi comuni che oltre un decennio di MTV ha potuto creare riguardo alla figura del gangsta rapper.


Ma veniamo alla storia, che benché non fosse strettamente necessaria all'operazione, qualcuno si è preso la briga di inserire nel film. Mamma Cents è una ragazza madre che si guadagna da vivere nel magico mondo dello spaccio. Malgrado la professione sia piena di incertezze e comporti orari di lavoro irregolari, ella è molto amorevole ed attenta con il figlio. Spesso e volentieri si appoggia all'aiuto dei genitori cui lascia in affidamento il giovane Fifty allorquando deve lavorare la sera. Il rapporto con i genitori della signorina Cents sono alle volte tesi in quanto le di lei scelte professionali non vengono apprezzate.
Il piccolo Fifty è contento di stare dalla nonna anche se i suoi zii/cugini gli stanno immensamente sulle balle. Nel quartiere vive infatti una ragazzina modello tizia da video hip hop da piccola con cui usa giocare al dottore.

Un giorno mamma Cents ci lascia le penne. In seguito ad un battibecco con dei colleghi si ritrova con dei buchi supplementari nella testa ed il cervello sparso sul parquet della sua casa da associate dealer. Il giovane Fifty si ritrova orfano e va a vivere con i nonni.

La convivenza con i nonni è difficile. I suoi cugini/zii sono dei maledetti intolleranti che reagiscono malamente alle manifestazioni della sua simpatica personalità di superviziato figlio di spacciatrice con scarpe da basket da 300$ a paio. Verificata l'incompatibilità con il vivere in una casa piena di gente si trasferisce nel capanno degli atrezzi. Dove in breve diventa un pezzo dimarcantonio con addominali scolpiti e parlantina da rapper farfugliante.

Da qui via si svolge la parte topica della trama, ovvero il nostro che scala le gerarchie dello spaccio, che reincontra la sua morosa delle elementari che nel frattempo si era fatta superbbona e che al rivedere il Cents abbandona la sua vita fatta di college e impegno sociale per mettersi assieme al mo pimpish indatown.

Un presunto elemento di approfondimento dovrebbe essere l'ossessione del Fifty con la figura del padre che non ha mai conosciuto e riguardo la quale ha in mano elementi pressoche nulli per poter in qualche modo sperare di identificarla (che mamma cents sia stata una che la faceva andare come le raganelle i tifosi allo stadio di certo non aiuta). Elemento più che altro presunto ma che vorrebbe fare da filo conduttore di tutto il film fino al finale tragimoralista cui MTV non ha saputo risparmiarsi, forse a mo' di disclaimer alla "we don't endorse crack dealing and pimping".


In breve: il film è una somma di luoghi comuni, e ciò non di meno qualche pregio se lo porta pure appresso. Il Fifty non convince davvero ma neppure è tanto disastroso quanto uno si sarebbe potuto aspettare sulla scorta delle sue clip. L'avventurarsi in un ruolo dai contorni drammatici è una palese forzatura, avesse tirato Snoop Dogg nella partita e avessero girato assieme una commedia in cui se ne andavano in giro carichi di ninnoli in princisbecco a yoyoare ne sarebbe uscito meglio. Non so dire se il ragazzo qualche numero nascosto ce l'abbia, può darsi, ma per poter davvero esprimere qualche cosa dovrebbe andare oltre al fare il moniggaindahood, che a dirla tutta suona molto artificioso e ad uso e consumo dei suoi fan più sprovveduti.

In realtà l'anello davvero debole della faccenda è un cattivo assolutamente non all'altezza. Questo, e il fatto che alla fine, di riffa o di raffa, il Fifty abbia comunque da diventare un rapper, sono gli elementi che più ridicolizzano lo sforzo drammatico che il film cerca altrimenti di fare.

Concludendo: se non sei Spike Lee certe cose non farle, hai qualche manciata di milioni di $ e un star dell'hip hop sotto mano? Meglio tu faccia un altro Soul Plane, il mondo ne uscirà come un posto migliore.

Valutazione: *** (per guardarlo lo si guarda pure)

P.s.: Malgrado il nome, 50 Cents non ha nulla a che fare né con Tony Curtis né con il Principe de Curtis, che comunque tra di loro non c'entrano. Bella forza mi direte, Curtis è nel primo caso un nome e nei seguenti un cognome. Era solo una scusa per poter citare qualche nome cinematograficamente un po' più significativo. Ovviamente non c'entra nella neanche con Jamie Lee Curtis, visto che quest'ultima è la figlia di Tony. Divagazione conclusa.

sabato, aprile 01, 2006

Out for a kill @imdb

Back Again

È ormai trascorso qualche tempo dall'ultima volta che vi ho tediato con un pezzo su qualche filmaggio che mi è capitato di vedere. Ora la mia attività di padre di Elia (che tra l'altro sta una meraviglia e cresce bello e forte che neanche a Sparta l'avrebbero sacrificato) ho deciso di tornare per raccontarvi qualcosa. Ma purtroppo le mie visite al cinema si sono rarefatte e anche la visione della televisione mi è venuta meno. tuttavia, in una desolata sera, non ho potuto fare a meno di guardare l'incresciosa fine di un mito della nostra gioventù. Ho rivisto Steven Segal in una delle peggiori cose mai realizzate per il cinema: Out for a kill. Torno a voi con qualcosa che potrei classificare come al peggio non c'è limite, e il ripiano basso dello scaffale nel mio ufficio è comunque troppo elevato per ospitare questa indecenza.

Im Beginn war das Wort und das Wort war bei Gott und Gott war das Wort

Tutti noi abbiamo visto il bel Steve fare l'Aikido contro le forze del male. In buona sostanza un'arte marziale al rallentatore che dobbiamo dire il Segal rendeva superstilosa. Di questo non è rimasto più niente. Il Segal si è convertito al Kung fu ed ha messo su qualche chiletto che neppure l'Orlando Pizzolato riuscirebbe a far dimagrire per fargli finire la maratona di New York che ormai tutti prima o poi fanno s'intende in meno di otto ore e con lo scafandro da palombaro.

Tramare nel buio

In buona sostanza il film racconta di un professore di archeologia cinese che veste come un cinese per tutto il film, quando neanche i cinesi nel film vestono come cinesi che rimane suo malgrado coinvolto in un traffico di droga ordito da un triade cinese non meglio precisata con un consiglio dei saggi e vari distaccamenti in tutto il mondo. L'invischiamento consiste nel farsi ammazzare l'assistente, la moglie e mettere in opera la vendetta perché il senso dell'onore del Segal non è in discussione nemmeno in questo filmaggio (anche se quello del pudore sì). Detto fatto si mette all'opera e scala la piramide del potere della triade girando per mezzo mondo e risolvendo rebus tatuati sulle braccia dei coparioni che man mano elimina. Alla fine arriva al supremo e lo uccide piuttosto rocambolescamente. Tutti contenti, l'onore dei Prizzi è ristabilito ed il Segal trova pure il tempo di amoreggiare con una Cinese del FBI che è stata messa lì per permetterci questo finale, e perché è propedeutica ad una scena lesbo a tre quarti del film.

Perché che ci tedi con questa recensione

Bella domanda? Benché non sia più addentro alle cose di cinema come una volta, ed avendo comunque il ripiano basso dello scaffale nel mio ufficio ben fornito pensavo di avere visto il peggio. Invece come in tutte le amare faccende dell'esistenza umana, il peggio è dietro l'angolo pronto a sorprenderti e a farti esclamare al peggio non c'è limite (beh forse in Italia un buon campionario del peggio lo stanno vedendo sui loro schermi in campagna elettorale. Qualcuno si salva: consiglio a tutti il Moretti che imita Califano in collegamento con Music Farm dalla trasmissione Radio di Fiorello: qualcosa che fa venire le lacrime dall'ilarità. Persino Califano moriva dal ridere). Devo dire che il Segal non mi dispiaceva poi troppo per esempio in Pericolo in alto mare, ma vederlo così ridotto fa proprio male. la domanda che però mi assilla di più è chi gli abbia dato i soldi per produrre queste schifezza. Altri due attori sono precipitati in basso, ma mai così e soprattutto sempre con enorme stilosità. Il Van Damme che lasciata la palestra in Belgio dove si allenava con Tom Po è caduto in basso ed ha fatto Double Trouble con Dennis Rodmann, alias The Menace, alias The Worm e che tutto sommato ha il suo fascino e pregio, ed il nostro buon Leslie Snipes che qualche buon colpo lo ha azzeccato e che nella triade di Blade schifo proprio non fa anche se onestamente i film non valgono nulla: ma lui rimane stilosissimo! Il Segal invece no! Oltre ad un filmaccio riuscito proprio male, si presenta grasso, flaccido e quasi svogliato, come se la vita gli avesse precluso ogni possibilità. Dico io non potevi fare il Califano di turno per i fatti tuoi, piuttosto che continuare? Direte voi, ma la televisione e' il mezzo più democratico che ci sia: se qualcosa non ti piace cambi canale. Vi dirò che non ci sono riuscito. Ho condiviso il dolore del Segal e non intendo del personaggio, ed ho pianto vedendolo fare il Kung Fu. Si sa chi lascia la via per quella nuova, sa ciò che lascia, ma non ciò che trova.

Commento finale

Masticare fiele è meno doloroso per gli occhi e dannoso per la salute che la visione di questo film. Lo sconsiglio caldamente a tutti. Purtroppo come si vede dalla scheda in imdb Steven Segal sarà protagonista di altra spazzatura almeno per quest'anno. Che Dio ce la mandi buona.

Valutazione

Qualcosa che non avrei mai voluto vedere: peggio di Beowulf.

Post-produzione

So che avevo minacciato di pubblicare la recensione della trilogia di Blade e forse lo farò, Ma ho visto anche la Fabbrica di cioccolato e se volete ne faccio una recensione magari comparandola con il film originale che pure ho visto più di una volta.

venerdì, marzo 31, 2006

Firewall (@imdb)


Premiere sponsorizzata Chrysler dell'ultima fatica di Harrison Ford.

La cosa migliore che si possa dire è che era gratis e che l'aperitivo era decente.

Tutto il resto è game over.

Harrison Ford è un esperto di sicurezza di una banca, pur essendo alla soglia dell'AVS ha i figli piccoli e una casa un po' alla Cape Fear. Il tutto è ambientato in Seattle in modo che di tanto in tanto al nostro sia dato di correre sotto la pioggia.

Il cattivo della vicenda è Paul Bellamy, già amico immaginario di John Nash in Beatiful Minds, nella fattispecie il dumbest smart bad guy del pianeta terra, capace di ordire micidiali intrecci con piccole lacune che li rendono dei rocamboleschi fallimenti.

A fare da comprimari ci sono il già T-1000 Robert Patrick e Robert Forster, che in Jackie Brown era l'uomo dell'agenzia delle cauzioni. Le loro parti sono prettamente marginali, ovvero si limitano a venir sospettati di cattiveria di tanto in tanto.

Virginia Madsen, avvinazzata bionda di Sideways, è la decorativa e ciò non di meno coraggiosa moglie di Harrison Ford.

A completare il quadro si ha la Chloe del CTU (Mary Lynn Rajskub) nella parte, rullino i tamburi, dell'assistente precisa, efficente ma tendenzialmente un po' defecapene.

Cast tutto sommato più che discreto e che offre una prestazione per quanto possibile dignitosa, il problema è il fatto che il film è in tutto e per tutto una noia mortale. Al di là dell'assoluta demenzialità di tutti gli aspetti tecnici della vicenda, gli astuti piani del malvagio Bellamy si risolvono immancabilmente in scazzottate, inseguimenti, e l'Harrison che gioca a fare il se stesso ne il Fuggitivo ed Air Force One, prendendo poco dal primo e tutto il peggio del secondo, e non è poco. Anche la locandina del film pare riprendere queste due precedenti fatiche dell'ex Dr. Jones.

Dulcis in fundo un finale davvero incommentabile.


Invero la cosa più entertaining della vicenda era il tizio seduto a fianco che ad ogni apparizione della Chrysler del Ford, sponsor della premiere, esplodeva in eccitati commenti.

In breve: se hai 60 milioni di dollari e nessuna idea tieniti i 60 milioni di dollari che a dirla tutta il seratone del Big Brother, o un'ora e tre quarti di monoscopio erano giusto marginalmente meno eccitanti.

Valutazione: ** (xké di ste idiozie non se ne può più).

giovedì, febbraio 02, 2006

Memoirs of a geisha (@imdb)


I gialdìt son tutti stessi, questo il messaggio intrinseco del film. Che poi qualunque asiatico di qualsivoglia Giappone, Cina, Corea, Vietnam, Thailandia e via dicendo sia pronto a giurare di poter distinguere un cambogiano da un laoita a 18 km di distanza è un dettaglio insignificante, il fatto che riesca in effetti a farlo è solo una postilla, si sa che i gialdìt son tutti stessi.

Tanto uguali sono che il regist Rob Marshall ha ben ritenuto che hongkonghesi, cinesi, malaysiani (e non si dimentichino gli ABC) fossero fino a mai per fare i giapponesi (tanto chi vuoi che se ne accorga). Per aiutare il pubblico a distinguere i personaggi gli uni dagli altri, visto che si sa tanto i gialdìt son tutti stessi, segni caratteristici sono stati distribuiti a destra e a manca, e ad una capitano le lenti a contatto azzurre, all'altro il volto pesantemente sfigurato, un'altra ancora non toglierà mai gli occhiali, e via dicendo. Il pubblico rimbecillito ringrazia commosso.



E come non applaudire il fantasioso sincretismo linguistico che vuole che il film sia parlato in inglese con accento giapponese, per quanto possibile, cui si accompagnano saltuarie espressioni in giapponese (i vari arigatò e simili) che suonano con una non indifferente cadenza occidentale (visto che sono messe a bella posta in mezzo a frasi in inglese con simulato accento giapponese, il film in baka-weisch mi mancava). A tratti ci sono degli americani che dicono qualche frasetta in claudicante giapponese, poi tutti quanti conversano in una lingua comune che si fatica ad identificare. Se l'inglese accentato dei giapponesi (o meglio i supposti tali, ma tanto essendo i gialdìt tutti stessi...) è il giapponese, e l'inglese non accentato degli americani è l'inglese, perché dialogando si capiscono, se invece è tutto giapponese perché gli americani lo parlano meno dei (supposti) giapponesi, e se invece l'inglese tra (supposti) giapponesi è giapponese e quello tra americano o tra (supposti) giapponesi ed americani è inglese perché i giapponesi dell'isolazionismo ultranazionalista imparavano l'inglese infinitamente meglio di quelli dell'era dell'informazione?


Che l'assai meno pretenzioso Last Samurai se li risolvesse molto più elegantemente tutti questi aspetti è un'altra storia, però già che lo facevano, sto Memoirs of a geisha, potevano anche farlo accurato.

Ma veniamo appunto alla storia, la piccola Chiyo, bimba del giappone rurale che una mutazione genetica vuole con gli occhi azzurri, viene venduta ad una casa di geishe, dove, se sarà brava, le verrà concessa l'opportunità di essere iniziata all'entreneusismo nipponico. Sua compagna d'abitazione e di studi è Pumpkin (che immagino essere un tipico nome da patrizia di Kyoto, e che il divenire degli eventi trasformerà in un bel esempio di yellow trash), sua nemesi è Hastumoto (Gong Li) che pur essendo una geisha in carriera decide completamente aggratis di renderle la vita infame e in quattro e quattr'otto riesce a farla relegare al ruolo di schiavetta.

Un giorno la piccola Chiyo è rattristata sopra un ponticello di legno su di un ruscello (il giappone di fine anni '30 guarda infatti fuori tutto come una sorta di wellness feng shui) ed un signore simpatico e gentile (Ken Watanabe) accompagnato da due geishe con ombrellini di carta, le compra una granita e le dice di non lasciarsi andare. Affascinata dall'incontro con la prima persona che non l'abbia presa a pedate o tirata per i capelli, si mette a sognare, di nuovo, di diventare una geisha, in modo da poter godere, di tanto in tanto, della compagnia di persone civili.

Questa reiterata passione per il geishismo si realizza allor quando, alcuni anni dopo, Chiyo è cresciuta fino ad assumere le fattezze da cinese con le lenti a contatto colorate (Ziyi Zhang) e diventa la protegée di Mameha (Michelle Yeoh).


Allorquando in occidente all'aspirante lap dancer basta un sapiente lavoro di silicone e un corso di ballo online da quindici minuti, in un paese in cui il concetto di morte da lavoro viene per comodità riassunto in una parola di tre sillabe (karoshi) le cose hanno da essere più sofisticate, ed ecco dunque come la geisha debba passare anni ad imparare a camminare leggera ed eterea con zeppe di legno da 30 cm e 18 kg cadauana e ad armeggiare un festival di ventagli ed ombrellini di carta, nonché a sputare sangue per riuscire infine ad avere il numero 26 di piede.

Inutile dire che la piccola Chiyo brucia le tappe si trasforma nella top geisha del villaggio in men che non si dica, assume il nome di Sayuri ed entra nello star system locale.

Poi varie vicende, guerra, americani, destino, amore, malinconia, romanticismo, eccetera, eccetera,
tanto il punto del film non è la storia.

Per parlare del bene che offre questa pellicola, il film si guarda in fin dei conti con piacere, si deve dire della gran bella fotografia, delle maestose ricostruzioni, dei bellissimi costumi, dell'ubiquio grande senso dell'estetica. Ritmi lenti, ma sopportabili, attori credibili, soprattutto tenendo conto delle condizioni generali (d'altronde se il regista, o il produttore, sono convinti che il pubblico sia un'orda di rincoglioniti che ci può fare il cast), Memoirs di una geisha un briciolo di senso cinematografico ce l'ha anche.

In sostanza:
Una sorta di grandioso documentario da 50 milioni di dollari in cui sulle oltre due ore e mezza di film scorrono incessantemente belle, bellissime immagini.

Un grosso film, da cui si potrebbero trarre un sacco di bei screensaver insomma. Un grande film? Ahimé temo proprio di no, memoirs of a geisha soffre di una difficilmente guaribile superficialità (e proprio per dirne una che sia una soltanto, anche se un pochino sembra anche, i gialdìt non sono davvero tutti stessi).

Valutazione: ***

lunedì, gennaio 30, 2006

Munich (@imdb)


Vi era una volta il più grande regista di blockbuster del mondo, faceva squali ed incontri ravvicinati, faceva gli extraterrestri, con lui falegnami convertiti alla fantascienza diventavano archeologi ed entravano alti nel firmamento Hollywoodiano. Era un uomo che trasformava in oro tutto ciò che toccava, faceva film per divertire, e ci riusciva alla grande.

Poi una fase più impegnata, forse un po' in pericolo di buonismo, e via a raccontare di guerre, miserie ed umanità nei vari Impero del sole, Amistad, Schindler's List e via dicendo. In parallelo una fase di trash da lucro, e passi ancora Hook, per il mastodontico cast più che altro, ma di Jurassic Park e sequel e di sporcarsi le mani con i Flinstones si faceva fatica a capirne il senso.

In seguito Steven ci riprova con la fantascienza, ed ecco che appare Artificial Intelligence, leggenda vuole sia un soggetto affidatogli da maestà Kubrick in persona, asetticamente estetico e che non racconta nulla, Minority Report, che da un geniale raccontino di Dick si trasforma in una Johnny Mnemonic con dieci volte il budget e un terzo delle idee, e un Guerra dei Mondi che a trattarlo coi guanti si può dirne che lascia il tempo che trova.

Ovvero, il fu re di Hollywood è da un pezzetto che via che far aggrottar sopraciglia fa poco altro.


Nel filone "the world according to Steven" si infila questo Munich, ricostruzioni dei tragici avvenimenti delle olimpiadi del '72 e delle sue conseguenze.

In seguito all'attacco palestinese alla delegazione israeliana alle olimpiadi di Monaco, e alla successiva morte di 11 persone, tra alteti e staff, il governo israeliano decide di applicare l'antica regola dell'occhio per occhio e di eliminare 11 personalità palestinesi di cui si sospetta il coinvolgimento con l'organizzazione dell'attentato.

Il film segue le vicissitudini di Avner (Eric Bana, l'australe dagli occhi tristi dopo Hulk e Troy è altresì detto l'uomo giusto al posto sbagliato) agente del Mossad di basso livello cui viene dato l'inarico di consumare la vendetta, e di farlo senza che sia possibile alcun collegamenteo con il governo.

Il film, tra l'altro di lunghezza notevole, è festa di luci ed ombre. Da un lato vi è una ricostruzione dell'Europa dei primi anni '70 di sicura efficacia, per quanto mi possa esser dato di giudicare (in prima persona non l'ho mai vista, per ovvie ragioni anagrafiche), dall'altro il tentativo fallito di rappresentare dubbi, certezze e debolezze dei vendicatori che diventano vittime del loro ruolo.


A raccontare di persone Steven non è mai stato bravo più di quel tanto... grande estetica, maestose ricostruzione e una cinematografia impeccabile, questo sì, ma l'umanità non emerge, e nemmeno traspare, e questo rende il film a tratti debole. Insomma un romanzone alle Ken Follet.

La pecca è che c'è troppo e di tutto e l'ottimo cast (tra gli altri Geoffrey Rush, Kassovitz, il già Cesare in Rome Ciarán Hinds) ha alla fin della fiera troppo poco spazio per permetter all'umanità dei personaggi di emergere.

Si aggiunga a questo il fatto che lo sviluppo della vicenda verte attorno ad un gruppuscolo di naturfreunde anarco-eversivi germogliato dalla resistenza francese nella seconda guerra mondiale, di cui viene detto poco niente e che si accolla tutto il lavoro difficile, tanto che agli undercover del Mossad è sufficiente andarsene di tanto in tanto a Parigi a recuperare nome e residenza del prossimo terrorista da spedire a far comunella coi lombrichi.

Non va tra l'altro trascurato il dettaglio che in mancanza un minimo interesse nella storia recente, il film rischia di scivolare nel noiosetto.

A dirla breve non manca nulla salvo quel qualche cosa in più.

Valutazione: ****

giovedì, gennaio 26, 2006

Farewell Eddie il Bello

Ok, è il fratello minore del grande Sean, minore di età e minore di fama! Però a me è sempre piaciuto, anche se non ha quasi mai nei suoi passa 50 film interpretato la parte del protagonista. È Chris Penn e purtroppo è morto ieri. Questo vuole essere un modesto ultimo saluto a un attore che la maggior parte della gente non ricorda di aver mai visto, ma che ha avuto lampi di genio e interpretazioni degne di nota in molti film, in pellicole che sicuramente il pubblico ricorda e che sono state a volte rese grandi anche dalla sua prestazione. Non ha avuto la fortuna di Sean, non ha vinto l’Oscar come lui, ma altri della famiglia Penn, tutti artisti, non l’hanno avuta. Insomma viene considerato il fratello sfigato del Sean, ma per me è un grande ugualmente.

È impossibile dimenticare Eddie il Bello de “Le Iene” oppure lo schizofrenico Chez de “I fratelli” (“The Funeral” di Abel Ferrara, 1996). Come tanti attori della sua generazione diventati poi famosi anche Chris è stato lanciato dal film “Rusty il selvaggio” (“Rumble Fish” di F.F.Coppola, 1983) al fianco di Matt Dillon e tanti altri. Ha poi fiancheggiato un giovanissimo Tom Cruise in “Il ribelle” (“All the Right Moves, 1983) e l’anno dopo Kevin Bacon nel mitico “Footloose”. Proprio come quest’ultimo, che è sicuramente più conosciuto dal grande pubblico perché più volte protagonista, non ha mai fatto il grande salto che sono riusciti a fare i suoi compagni dei primi film. Si è lanciato però in una brillante carriera da comprimario con picchi di bravura appunto nei due film citati sopra. Con Tarantino ne “Le Iene” non fuoriesce dal coro di quel gruppo di ottimi attori che ha interpretato il film, ma la sua performance resta significativa. Ne “I fratelli” è al fianco di Vincent Gallo e Christopher Walken, e non solo è alla loro altezza, li sovrasta letteralmente con una prova che gli vale il premio quale migliore attore non protagonista al festival di Venezia del 1996. In questo film è il classico italo-americano affranto dalla morte del fratello con il quale dominava la malavita locale. In un flashback delle gozzoviglie che i due si sparavano, tutto porno-droga-sesso-alcool, per poco non massacra una ragazzina candidata puttanella perché è troppo giovane. Nel mitico finale del film invece, a causa di una specie di concezione un po’ troppo deviata dell’amore per la “famigghia”, fa un macello. Ci regala inoltre grandi monologhi.

Anche in altri film è spesso un gangster, che è il suo ruolo ideale. È un ottimo cattivo, un cattivo da sparatoria ravvicinata, come nella stupenda scena finale di “Una vita al massimo” (“True Romance” di Tony Scott (sceneggiatura Tarantino), 1993 con C. Slater e altri). Poteva benissimo incarnare il boss Tony Soprano dell’omonimo telefilm, lo stile è quello, forse ancora più violento. Ma è più tirapiedi che capo, è più quello che fa il lavoro sporco, che elimina gli incomodi, un Donnie Brasco carriera natural durante. Anche quando fa il poliziotto è un duro ed è uno scagnozzo di Nick Nolte assieme a Chazz Palminteri e Michael Madsen, un gruppo speciale di sbirri – la “Hat Squad” – nella Los Angeles anni ’50 decisi a usare le buone o le cattive per sapere la verità sulla morte di Jennifer Connelly in “Scomodi Omicidi” (“Mulholland Falls”, 1996).

Ultimamente è apparso in “Rush Hour”, “Starsky&Hutch” e in “After the Sunset”, che – lo dico tra parentesi, ma indignato – NON è il sequel di “Before the Sunset” come scrive il Corriere del Ticino di oggi (26.1.2006). “Before Sunset” (senza “the”!) con Ethan Hawke e Julie Delpy è il romantico sequel del romantico “Before Sunrise”, invece “After the Sunset” è il film con Pierce Brosnan e Salma Hayek che rubano gioielli sullo sfondo dei Caraibi.

Ecco, solitamente era Chris a chiudere un film con una qualche sparatoria o una qualche esecuzione, era lui a spegnere la vita ai suoi avversari cinematografici, adesso è arrivato il suo turno, ma nella vita reale. Adios Chris. Farewell.

Io l’ho sempre visto e apprezzato come Chris Penn, non come fratello-di-Sean-Penn, per questo motivo ho scritto queste due righe di congedo.

sabato, gennaio 14, 2006

The 40 years old virgin (@imdb)

Il quarantenne Andy è vergine, ma questo è in realtà l'ultimo dei suoi problemi, non ha amici, non ha vita sociale, passa il suo tempo libero a fare il teenager geek senza internet, altrimenti è commesso all'interdiscount di un megamall di Nowehere USA. Ha la collezione completa dei GI Joe e dei Masters, e quando colora le miniature di Warhammer (che poi non usa perché non conosce nessuno) ci parla spesso e volentieri.


Tra l'altro non ha la patente e va a lavorare in bici, il che in una città infestata dai Naturfreunde come Zurigo non farebbe batter ciglio a nessuno, ma negli Stati Uniti del Giorgio Dabiu Cespuglio è cosa che neanche il peggio pariah.

Un giorno qualunque alcuni colleghi che solitamente diffidano di lui perché immaginano possa essere un serial killer, lo invitano a giocare a poker, e ridendo e scherzando vengono a conoscenza della sua illibatezza. Anche se prima di allora non gli avevano mai dato a trà per più di quattro secondi di fila questa rivelazione lo rende subito interessante e Andy entra in una fase simile a quella che vive un cagnetto appena viene portato in una nuova casa in cui tutti fanno a gara per occuparsene (fortunatamente per Andy l'epilogo non sarà venir abbandonato all'autogrill perché non lo si vuole portare in vacanza con sé), e la prima cosa per cui si adoperano è far sì che tutti al mega mall lo vengano a sapere.


Andy è dapprima seccato che la sua personale vicenda sia oggetto di vociare, scherno pubblico e di morbose attenzioni femminili, che non poco somigliano al voler toccare la gobba al gobbo perché porta fortuna. Poi però, di fronte al sincero interessamento nei suoi confronti da parte dei suoi colleghi, si lancia con loro in una sorta di vita da adolescente alcolista con potere d'acquisto.

Il redivivo Andy incontra una pletora di donne dalle evidenti turbe psichiche (in genere ninfomani o alcoliste o entrambe le cose) che nel magico mondo della suburbia escogitata ad hollywood guardan fuori tutte che al confronto le top model son qua cozze bene. Sceneggiatura vuol tuttavia che da questi incontri non scaturisca nulla di buono.


Casualmente il nostro incappa in Trish (Catherine Keener, già vista in Being John Malkovich), potenziale archetipo del white trash, che una volta la dava via come il pane ma oggi giorno vuole l'approccio sensibil/casto/buonista. Andy che ha l'ansia da prestazione si dice d'accordo con l'approccio alla prima conosciamoci meglio, e i due si lanciano in una noiosissima relazione di andare a mangiare in ristoranti di categoria medio-bassa (stanno in una scialba periferia e sono proletari dopo tutto) e limonare duro sul divano della casa di lei quando i di lei figli stanno per rientrare in casa.

Un dettaglio curioso è che l'attività di lei è avere un negozio in cui la gente porta le cose e queste possono essere acquistate su ebay ma non nel negozio stesso, non sono ancora stato in grado di stabilire se questa sia una trovata muffosamente stantia o un assoluto colpo di genio, urgerà meditare ancora.

Il prosequo una serie di vicende biecamente scontate, poi vissero tutti felici e contenti, che caschi il mondo il II di questo film non lo fanno.

In realtà il film è meno peggio di come, a rileggere le righe sopra, mi pare di averlo dipinto finora. Alla banale vicenda, che viene costellata da vomitosamente banali situazione, una sorta di collezione di cliché di cliché, s'accompagnano dialoghi ad ogni buon conto abbastanza brillanti e un cast che interpreta gli stereotipati personaggi in modo piuttosto simpatico. Alla fin della fiera qualche sincera risata questo film la strappa.

In breve un film di spassosa inutilità.

Valutazione: ***

Ad oggi si dibatte se Plan nine from outer space sia un'assoluta vergogna partorita da un poro bao senza mezzi e con un decadente pazzoide che credeva di essere un vampiro nel cast, oppure l'opera sumprea di una mente troppo geniale perché i suoi contemporanei la capissero.
Dubito che a The 40 years old virgin possa capitare una cosa analoga frà una quarantina d'anni, ma magari a linea di confine sì (non c'entra nulla ma mi andava di dirlo).

martedì, gennaio 10, 2006

L'anno che già corre

Non ho fatto nessun post di capodanno in quanto e non avevo nulla da dire e avevo altro da fare, all geek-o-meter di fine anno contribuirò l'anno prossimo (forse).

Periodo di stanca dopo le feste, poca ispirazione, poco cinema per quel che mi riguarda, pure poca televisione aspettando che il 2006 porti la conclusione della saga dei Soprano's, la seconda stagione di Rome, e quant'altro. La televisione nazionale ci omaggia di Lost, cosa assai poco motivante in realtà, visto e considerato che ad oggi l'hanno vista anche i paracarri, e se alla prima visione il lentissimo ma inesorabile evolvere delle situazioni è deliziosa tortura che non permette di staccarsene, una seconda visione da pochi stimoli (pure le grazie di Evangeline Lilly di cui si viene più spesso che di rado voyeuristicamente omaggiata motivano solo fino ad un certo punto).

Ai pochi che non dovessero averlo ancora visto non si può che consigliare l'ottimo The Constant Gardener dal quale, se non guardato con troppa faciloneria, si può trarre anche qualcosa di utile.

Il nuovo anno ha portato a maggior sapere tecnico al vicino/a di casa tramite il cui access point non protetto navigavo internet da alcuni mesi, che infine ha fatto suoi concetti come password e limitare l'accesso, indi per cui al momento casa mia è ai margini del villaggio globale. Medito e rimugino e penso che a breve mi toccherà prendere provvedimenti, ma per ora questo è lo stato delle cose.

A breve Balmy se ne torna a vivere tra i palmizi del quai del Ceresio, il che essendo le vie dell'internet arduamente numerabili non comporta cambiamento alcuno per questo blog (salvo che ora i film se li dovrà vedere al cinestar con date d'uscita da Africa Subsahariana, vorrà dire che se/quando sarà arrestato per p2pismo gli si porterà arance alla Stampa), ma spoglia questa città di un personaggio di spessore. Ma che dire, si è ahimé tutti naufraghi nelle correnti dell'inesorabile divenire. Buena suerte Balmy.

Ed infine come non rispettare la tradizione elvetoteutonica di farsi gli auguri di buon anno fino a marzo inoltrato in caso non ci si fosse incontrati prima un buon 2006 a tutti.